“Razzismo, populismo, nazionalismo, fascismo, comunismo, patria, famiglia, tradizione”, sono alcuni dei tanti termini che l’equivalente progressista dell’Accademia della Crusca relega a concetti sempre e comunque negativi, sminuendone o travisandone i significati di base. Spesso queste parole vengono associate a fenomeni che solo in minima parte sono collegati ad esse, o addirittura ne sono del tutto estranee. E questo a volte, bisogna dirlo, succede anche nella direzione opposta.
Partiamo da un concetto chiave, che sin dall’antichità ha accompagnato la storia umana: la patria.
Se fino alla Seconda guerra mondiale, la Patria era un’entità spirituale oltre che geografica, che univa individui appartenenti ad una stessa comunità, le derive antifasciste di sinistra prima e le contestazioni giovanili americane poi, hanno trasformato questo termine sacro in qualcosa che ricorda guerra, odio e discriminazione, venendo immediatamente associata a un approccio imperialista nelle relazioni internazionali. La stessa Unione Sovietica aveva una grande considerazione del concetto di Patria, seppur vista secondo un’ottica diversa rispetto all’occidente.
Parallelamente, il concetto di Famiglia è stato via via censurato e rimodellato, in quanto ritenuto sinonimo di patriarcato, di dominazione maschile che giustificasse ogni sopruso sulla donna, di odio e repulsione verso tutti gli altri tipi di “famiglia” che il nuovo pensiero unico vorrebbe propinarci.
E ancora, la parola Tradizione viene sempre vilipesa in quanto ritenuta retaggio di un mondo antico dal pensiero oscuro, in cui non esistevano i più elementari diritti di base (stando almeno a quanto ci dicono questi esperti della domenica). “Le tradizioni sono fatte per essere violate”, ci dicono, considerandole come catene che impediscono ogni tipo di progresso intellettuale, scientifico e giuridico. A quanto pare questi signori, che ci dicono continuamente di viaggiare, non hanno mai fatto un giro in Giappone, in Russia e, perché no, anche nella nostra Italia che, con tutti i suoi problemi, non è poi così da terzo mondo come le menti antinazionali continuano a dire.
Come non portare ad esempio poi parole come “nazionalismo” e “populismo”, i cui significati sono stati completamente stravolti in negativo?
Il nazionalismo viene giudicato un’evoluzione diretta del “fascismo” inteso come l’insieme di azioni, slogan e scelte politiche vere o presunte di quell’epoca, ed i suoi esponenti sono reputati potenziali squadristi pronti a marciare su Roma eliminando gli avversari; viene altresì inevitabilmente collegato al termine “patria”.
Il “populismo“, termine in voga in questi primi decenni del nuovo millennio, inizialmente era utilizzato per definire una particolare politica più attenta alle esigenze del popolo, da cui il nome; secondo quest’ottica, il popolo viene messo al centro dell’azione politica, instaurando un rapporto diretto con il potere. Qualsiasi cosa vuole il popolo viene promessa (anche se non sempre attuata), dai tagli alle tasse, all’aumento dell’occupazione e all’incremento della sicurezza. Oggi tale termine ha assunto un significato negativo, paragonabile al più becero qualunquismo, e viene utilizzato per definire chiunque faccia promesse assurde pur di accaparrarsi i voti del popolino ignorante.
Da questo punto di vista avrebbe anche senso, se non fosse che oggi qualunque azione viene intrapresa negli interessi del popolo, al fine di garantire la giustizia sociale ed il benessere comune, è considerata un problema. Il popolo, non essendo istruito, non ha diritto a reclamare alcunché, ma deve rassegnarsi alla sua condizione senza lamentarsi. Proteste contro le tasse inique, contro la poca sicurezza, il poco lavoro, la precarietà delle infrastrutture, vengono osteggiate poiché portate avanti da persone “poco istruite”, che (sottinteso) non dovrebbero nemmeno votare.
E veniamo infine all’utilizzo di termini prettamente ideologici dai significati stravolti: fascismo e comunismo. Oggi, ormai ne siamo consapevoli, i due concetti vengono equiparati e messi alla berlina quasi in egual misura, usando come motivazione i crimini (veri o presunti) commessi in loro nome. Entrambi sono criticati anche per il ruolo dello Stato che propagandano, giudicato un nemico della crescita individuale e del liberalcapitalismo imperante. Ma vengono anche usati per definire aspetti della vita di oggi che, all’epoca in cui queste ideologie dominavano, non furono mai affrontati: l’immigrazione, le nuove forme di famiglia, l’aborto, la droga, la sicurezza, oltre i già citati diritti sociali, sono i fattori discriminanti per definire una persona “fascista” o “comunista”.
Alimentando questa ignoranza lessicale si alimenta l’odio verso un’intera categoria di italiani e sopratutto verso chi ne ha davvero a cuore il destino. Eppure non abbiamo ancora toccato il fondo. Persino la grammatica viene stravolta, censurando parole che richiamano al razzismo anche e soprattutto dove non c’è, introducendo l’asterisco neutro in luogo del genere, i famosi genitori 1 e 2, la “matria”. Se i termini precedenti possono, e devono, essere usati per inventare un nemico immaginario, questi ultimi invece devono essere obbligatori, pena aver la vita rovinata. Le parole classiche sono messe al bando e sono il marchio di un mondo che deve scomparire.
Così come sta scomparendo via via la nostra lingua soppiantata da inglesismi fini a sé stessi, che prendono posti non richiesti, il tutto alimentato da un certo giornalismo e da una cultura esterofila imperante.
Ha senso quindi parlare anche di una dittatura lessicale, che ha il fine ultimo di distruggere la nostra cultura? Ai posteri l’ardua sentenza.