Strage di Bologna: un affare di Stato – 1^ parte
Strage di Bologna: un affare di Stato – 2^ parte
Strage di Bologna: un affare di Stato – 3^ parte
Le accuse confezionate dalla magistratura inquirente bolognese, consacrate nella sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio, non riguardarono solo i NAR.
La tesi della Procura è stata efficacemente descritta come una sorta di accusa a “cerchi concentrici”. Mambro e Fioravanti rappresentavano quello più ristretto, operativo, espressione a sua volta di una più ampia banda armata – il cerchio successivo – comprendente altri soggetti appartenenti alle strutture di Ordine Nuovo – tra i quali Massimiliano Fachini e Paolo Signorelli – a sua volta braccio organizzativo di una più ampia associazione eversiva – il cerchio più ampio – al cui interno, oltre ai capi di Ordine Nuovo, agivano i vertici di Avanguardia Nazionale e i responsabili dei “servizi deviati”, naturalmente agli ordini di Licio Gelli.
Solo agli “operativi” Fioravanti e Mambro e a un delinquente comune – che si trovava effettivamente in stazione al momento dello scoppio – Sergio Picciafuoco, oltre a Fachini, Signorelli e Roberto Rinani, fu addebitata la responsabilità penale della strage.
L’associazione veniva descritta nel capo d’imputazione come tesa a “conseguire (il fine di eversione dell’ordine democratico) mediante la realizzazione di attentati o comunque mediante il loro controllo e la loro gestione politica nell’ambito di un progetto teso al condizionamento degli equilibri politici espressi nelle forme previste dalla Costituzione ed al consolidamento del potere di forze ostili alla democrazia, progetto nel quale rientrava necessariamente la copertura e la garanzia della impunità agli autori degli attentati”.
Come si potessero “gestire politicamente” o “controllare” gli attentati e attraverso ciò “condizionare gli equilibri politici”, naturalmente nessuno si è mai curato di spiegarlo; ma non importa, ciò che contava era l’effetto, ossia ipotizzare che dietro l’attentato dei NAR vi fosse una strategia di livello superiore.
La tesi dell’esistenza di un’associazione sovversiva dietro la strage del 2 agosto non fu mai accolta dai giudici in nessun grado di giudizio, ma la riprenderemo ben presto in esame e se ne capirà l’intima logica, soprattutto a proposito del consolidamento del potere di forze ostili alla democrazia.
Le vicende di questo primo procedimento furono altalenanti. Dopo la condanna all’ergastolo in primo grado di Mambro, Fioravanti, Fachini e Picciafuoco, altre condanne per banda armata e quella di Gelli, Pazienza e i generali del SISMI per calunnia, aggravata dalla finalità eversiva, contro i vertici di Terza Posizione, al fine di sviare le indagini a favore dei NAR (nonostante fosse evidente che le veline dei Servizi, come già vedemmo, li accusavano), in appello si ebbe un clamoroso ribaltamento. Tutti assolti, ad eccezione dei generali Musumeci e Belmonte, a cui fu confermata la decisione con esclusione dell’aggravante dell’eversione.
Fu nelle more fra il primo e il secondo grado di giudizio che si verificò il c.d. “caso Montorzi”. Questi era un avvocato di punta delle parti civili, legale dell’Associazione Familiari delle Vittime, già presente e tra i più agguerriti anche in precedenti processi contro estremisti di destra, il quale, nell’estate del 1989, decise, dopo aver avvertito l’allora presidente dell’Associazione, Torquato Secci, di contattare Licio Gelli per esprimergli le perplessità già manifestate al suo ex cliente; il “Venerabile” fu il primo a conoscere le pesanti dichiarazioni che quell’avvocato pubblicamente espresse circa la – qui è proprio il caso di affermarlo – “gestione” del processo da parte dei magistrati bolognesi, influenzata a suo dire dal Partito Comunista.
L’avvocato Montorzi riferì, in realtà, cose che già si sapevano – ossia una sorta di “peso ambientale” – ma la sua testimonianza assumeva un notevole valore, poiché proveniente da chi poteva captare, meglio di altri, la presenza di pressioni, simpatie, influenze. Tutte cose, però che non si erano mai manifestate in fatti visibili, in atti determinati, dunque suscettibili di accertamenti giudiziari.
La cosa finì, come era prevedibile, in nulla e si fece di tutto per mantenerla sepolta nell’oblio.
Alla sentenza assolutoria, seguì l’annullamento da parte della Corte di Cassazione e il nuovo processo sancì, una volta ancora, la colpevolezza di Mambro, Fioravanti e la tesi della “calunnia a fini eversivi” di Gelli, Pazienza e gli uomini del SISMI. Picciafuoco, pure condannato, riuscì, unico fra tutti a vedere la decisione annullata dalla Cassazione e a uscire finalmente assolto.
Lui, Rinani, Fachini, Signorelli e altri ancora erano ritornati in libertà, assolti, dopo anni di detenzione e di tritacarne mediatico e giudiziario. Ma il processo del 2 agosto non poteva, non doveva finire.
Perché deve essere ininterrotta fonte di “storia”, per dimostrare che in Italia, dalla fine degli anni Sessanta, era stata messa in moto una continua congiura volta a evitare l’ascesa al potere delle forze e delle istanze “progressiste” – indovinate facenti capo a quale partito – e che le stragi ne furono il mezzo; il consolidamento del potere di forze ostili alla democrazia ne era naturalmente il fine.
Ad essere risucchiato in questo tritacarne fu questa volta Luigi Ciavardini, che aveva testimoniato la presenza sua, di Fioravanti e Mambro a Padova la mattina del 2 agosto. Un alibi di ferro per i due giovani leader dei NAR.
Non era bastato, come non erano bastate le smentite dei familiari di Sparti al racconto del supertestimone.
Il “peso ambientale” è proprio questo. Non c’è bisogno di commettere reati, di sigillare patti delittuosi o di scrivere manifeste sconcezze per adottare una decisione ingiusta. Sfumature, limature, sottolineature, scelta dosata e sapiente degli argomenti, da enfatizzare o minimizzare a seconda delle convenienze, magari un po’ di capacità affabulatoria, e il gioco è fatto. E se il “peso ambientale” trova accondiscendenze anche in piazza Cavour, il cerchio è definitivamente chiuso.
Luigi Ciavardini da testimone fu trasformato in imputato. L’incipit di Angelo Izzo su questo ulteriore capitolo, la presenza di “ragazzini” alla stazione di Bologna, aveva messo in moto il meccanismo che, come un volano – anche dopo la tragica morte in carcere di Nanni De Angelis – non si sarebbe fermato e non aveva più bisogno dell’aiuto dell’assassino del Circeo. Qualcosa si sarebbe trovato e fu infatti trovato: la consegna di un falso documento a Fioravanti, pochi giorni prima della strage, divenne la prova di un concorso morale. Assoluzioni, condanne, annullamenti e poi la decisione finale che sanciva la colpevolezza di Ciavardini.
Ma sarebbe ingenuo chi pensasse che i detentori del “peso ambientale” avessero i “fascisti” come reale obbiettivo.
I “fascisti” sono il primo livello, il “primo cerchio”. Gli esecutori dei desiderata delle forze ostili alla democrazia; sono questi ultimi il vero obiettivo. Personaggi della Democrazia Cristiana, la P2, ambienti militari, NATO, il partito americano, insomma la “reazione” in agguato.
Il concetto di “strage di Stato” , tanto suggestivo quanto trasversale, è questo. Funzionale a una ricostruzione storico-ideologica partigiana, indimostrata e, anzi, smentita dalla cronaca politica degli anni considerati. E che oggi ha ritrovato inaspettato vigore grazie all’inchiesta della Procura Generale di Bologna che ha resuscitato processualmente la – in realtà mai morta – “associazione sovversiva”, mandante della strage, con Licio Gelli, il giornalista Mario Tedeschi, direttore del glorioso “Borghese”, e il capo dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, Federico Umberto D’Amato.
E questo, si badi bene, proprio nel momento in cui, in una sorta di eterogenesi dei fini, in occasione dell’ennesimo capitolo giudiziario, che vedeva questa volta coinvolto Gilberto Cavallini, nuovi fatti emersi in dibattimento hanno all’evidenza stritolato la già tarlata impalcatura accusatoria contro i NAR e stanno dando voce e forza chi non ha mai creduto alle ricostruzioni della magistratura bolognese.
(continua)