Il “grande Italiano”, così pochi giorni fa e stato definito Cristoforo Colombo dal presidente Donald Trump, il 12 ottobre del 1492 sbarcava nell’isola di Guanahami, nelle Bahamas, da lui ribattezzata San Salvador.
Il primo ad avvistarla dal mare fu Francisco Rodriguez Bermejo, meglio conosciuto come Rodrigo de Triana, un marinaio in servizio sulla Pinta che, oltre al premio promesso dai re cattolici ottenne quello offerto personalmente dall’almirante Colombo, una casacca di seta.
Celebrato in Spagna come “Día de la raza” nei primi decenni del XX secolo, la commemorazione del 12 ottobre ha assunto in seguito varie denominazioni, fra cui quella frequente di “Día de la Hispanidad”, anche se in tutto il Sud America ha continuato a chiamarsi informalmente nel primo modo; espressione che – a dispetto di quanto può apparire – non ha mai posseduto un significato “suprematista”, stando anzi ad indicare l’incontro di due etnie, quella spagnola e quella india, che andava così a formarne una nuova, quella ispano-americana.
Così celebrato in tutto il continente fino a poco tempo fa, da giorno di festa, di concordia e di unione, in alcuni stati diveniva occasione di rivendicazione, se non di rancore storico-politico.
La Bolivia multinazionale proclamava quella data come “Día de la descolonizazion”, il Nicaragua “Día de la Resistencia Indígena, Negra y Popular”, il Venezuela chavista il “Día de la Resistencia Indígena”, mentre in alcuni stati e municipalità degli Usa il “Columbus Day” è divenuto “Indigenous Peoples’ Day”.
In Argentina il Día de la raza” diventava “Día del Respeto a la diversidad cultural”, mentre la statua di Colombo, ubicata nella Plaza Colón, dietro la Casa Rosada, è stata rimossa e sostituita dalla statua di una donna india, provocando le proteste della numerosa comunità italiana.
Non vi è dubbio che le parole di elogio del presidente americano nei confronti del navigatore genovese segnino un evidente punto di rottura rispetto al progressivo sgretolamento dell’originario significato della giornata del 12 ottobre e all’ondata di impazzimento generale che ha portato orde di vandali, e anche esponenti istituzionali, a distruggere, abbattere, insozzare statue e simboli di un passato che si intende rimuovere perché – secoli dopo! – divenuto improvvisamente sgradito.
Che l’indigenismo sia divenuto negli ultimi decenni uno strumento di lotta e di penetrazione politica e culturale della sinistra marxista latinoamericana – che ha nel Foro di San Paolo, ad attuale guida venezuelana, il suo think tank – è noto da tempo e l’occasione di utilizzare una data così significativa allo scopo di rilanciare l’eterno paradigma marxiano della storia come scontro fra sfruttati e sfruttatori non poteva essere tralasciata. Anche a costo di continuare a distorcere l’evidenza storica della costante e paritaria presenza nel panorama politico e istituzionale ispano-americano (a differenza di quello anglo-americano) di elementi di etnia india e della rapida integrazione dei discendenti delle originarie popolazioni nelle nuove società che gli Europei andavano formando in quei territori.
I simboli rimangono e il loro significato non perde mai d’attualità, questa è sicuramente una prima doverosa constatazione. A cui se ne aggiunge una seconda, ossia che a perderli di vista, trascurarli e a non rivendicarne il significato profondo (in questo caso la scoperta e il popolamento di un mondo nuovo in cui, oltre alle brutalità che si sono sempre accompagnate alle conquiste, l’Europa – attraverso un suo pioniere, nostro compatriota – ha dimostrato volontà di potenza e di civilizzazione) si finisce per accettare la mistificazione della verità. Cessare di amare se stessi e ciò di cui si è eredi è il primo passo verso la sparizione politica e fisica dalla storia.