Marian Kotleba, capo del movimento LSNS (Partito Popolare Nostra Slovacchia) è ormai un protagonista della lotta politica slovacca ma è anche un “caso” da studiare a livello europeo per tutti i militanti nazionalisti e più in generale, per tutti i patrioti, i cattolici militanti, persino per tutti i semplici sovranisti in buona fede.
Kotleba e il suo movimento in passato hanno governato per anni una regione centrale del paese, sono costantemente attivi, organizzano pattugliamenti anti-criminalità sui treni, contano attualmente su 14 deputati nel parlamento nazionale e sono recentemente balzati oltre il 10% al primo turno delle ultime elezioni presidenziali – con punte ben più alte fra i più giovani e nelle zone rurali – ma dovranno presto comparire davanti a un tribunale per presunti crimini ideologici e potrebbero in teoria essere messi fuorilegge non per ciò che hanno fatto e fanno ma per ciò che pensano, credono e amano!
Non è tanto la minaccia del provvedimento a essere grave – è già accaduto in passato, ma il fatto di essere costretti a cambiare nome ufficiale e il dover sostituire le divise del movimento con semplici t-shirts non ha fermato la crescita del movimento e non ha scoraggiato i militanti – quanto il principio legale che dimostra come la democrazia classica e ufficiale, quella che teoricamente proclamava di garantire libertà di espressione a tutti, dissidenti inclusi, sia ormai agonizzante e in via di trasformazione in una cinghia di trasmissione e un paravento burocratico al servizio dei veri poteri sovranazionali. Il “politicamente corretto” che impone di accettare l’immigrazione selvaggia, l’aborto di massa, l’equiparazione dell’omosessualità alla vera famiglia secondo natura, l’asservimento alle direttive usurocratiche dell’euroburocrazia si trasmette dal livello culturale e mediatico a quello politico e infine a quello giudiziario e poliziesco. In linea di principio, che un movimento rappresenti una fetta consistente della popolazione, che si opponga alla criminalità tutelando le classi lavoratrici e i giovani, che facendo tutto questo rispetti la legalità imposta dallo Stato, poco importa ai padroni internazionali che la legalità la utilizzano solo quando è nel loro interesse.
Se un movimento militante rappresenta il cattolicesimo, l’amor di patria, la tradizione nazionale di un popolo allora quel movimento va attenzionato, calunniato, frenato, colpito in qualche modo. Il giudizio che conta non è quello del popolo in questione o di una sua parte, ma quello deciso a priori a livello internazionale da un potere senza volto. Inutile farsi troppe illusioni, questo potere diventerà sempre più invadente e soffocante, non avrà pace finché non avrà piegato i popoli europei alla sua volontà in tutti i campi – economico, sociale, culturale, ecc. – fino ad annientare le loro specificità, vale a dire, finché non avrà cancellato i popoli europei imponendo a tutti un’unica società multirazziale e multireligiosa.
In questo momento, la battaglia di Marian Kotleba e dell’LSNS è la battaglia di tutti coloro che hanno a cuore i destini dei propri popoli. Quelli più radicali e coerenti, sono già idealmente al suo fianco ma anche i cosiddetti “moderati”, quelli che si illudono di poter difendere le sovranità nazionali senza fuoriuscire dai canoni imposti dai media, faranno bene a seguire con attenzione la battaglia di Kotleba a difesa del popolo slovacco, della sua libertà, delle sue radici etniche e della sua tradizione cattolica e nazionale – e magari farebbero bene anche a seguirne l’esempio.
Come si giustifica questa repressione internazionale delegata ai poteri nazionali locali e che ricorda i canoni del defunto socialismo reale? Esattamente con gli stessi argomenti del socialismo reale: quelli dell’antifascismo. È in nome dell’antifascismo che il comunismo ha oppresso l’Europa orientale per decenni, ha arrestato, deportato, eliminato intere classi sociali; è in nome dell’antifascismo che ha represso il cristianesimo, il nazionalismo e la proprietà privata e nel caso specifico della Slovacchia, è in nome dell’antifascismo che un popolo è stato privato della sua libertà nazionale e costretto nella gabbia di uno stato artificioso di ideazione massonica: la Cecoslovacchia.
A questo punto, si passa a un secondo problema, per certi versi ancor più scottante del primo. I nazionalisti slovacchi sono accusati di essere nostalgici del regime fascista slovacco di Monsignor Jozef Tiso, sacerdote cattolico, Capo del movimento e dello Stato dal 1939 al 1945, primo alleato a scendere in guerra con il suo esercito e la sua milizia di partito (la Guardia di Hlinka) a fianco del Terzo Reich nel 1939 e infine morto martire per mano comunista. “Ho combattuto con tutte le mie forze e il mio entusiasmo per una Nuova Europa libera dal bolscevismo e dal capitalismo” ha proclamato prima di essere ucciso.
Evidentemente, si apre un problema alquanto scottante anche in campo cattolico. Se per i cattocomunisti e i progressisti di oggi Tiso sarebbe da condannare – quando invece allora neppure a guerra conclusa vennero mai presi provvedimenti disciplinari ecclesiastici contro di lui o contro la sua ideologia – per certi cattolici tradizionalisti e conservatori il problema è scottante perché si tratta di un capo fascista apertamente schierato con Italia e Germania durante tutto il conflitto, catturato dai vincitori angloamericani, consegnato ai comunisti e infine morto martire. I camerati slovacchi lo commemorano e lo onorano ancora oggi – “Tu sei nostro e noi siamo tuoi”, dicono di fronte alla sua lapide – e sono i soli che si schierano a difesa del cattolicesimo e dell’identità nazionale, esattamente come Tiso allora: è chiaro che superata l’attuale fase di confusione dottrinale e spirituale, la Chiesa dovrà pure affrontare il problema. In effetti, anche in passato si è cercato di deviarlo, per così dire, in calcio d’angolo, sottolineando che Tiso, in quanto sacerdote cattolico ligio alla Dottrina della Chiesa e alle encicliche papali, avrebbe preso dai fascismi solo e unicamente gli elementi compatibili con la Dottrina Sociale cattolica e con gli interessi del suo popolo.
Paradossalmente, proprio i cattolici che hanno tentato in questo modo di separare la sua figura di prete e martire da quella di capo fascista – e parallelamente il suo pensiero politico dal grande filone dei fascismi europei – hanno aperto un vaso di pandora dottrinale: tra i soli “elementi compatibili” figurano per esempio, lo Stato totalitario a partito unico – “Un Dio, un popolo, una organizzazione” – la milizia armata e ideologizzata di partito, l’inquadramento paramilitare della gioventù, l’abolizione della democrazia partitica liberale, il culto del capo, la difesa della stirpe biologica e della sua cultura, il recupero delle proprietà slovacche detenute da stranieri cosmopoliti, il corporativismo e le leggi sociali più avanzate a favore dei lavoratori, la lotta totalitaria contro la sovversione marxista e la massoneria, l’adozione di forme anche esterne e simboliche quali le uniformi, le aquile, il saluto a braccio teso (Na Straz! – In Guardia!) e la cooperazione politico-culturale con altri movimenti fratelli come gli Ustascia croati, l’alleanza con Italia e Germania per tutta la durata della guerra contro comunisti e capitalisti, l’impiego delle Forze Armate slovacche al fronte, l’adesione al “Nuovo Ordine Europeo” instaurato da Roma e Berlino, non sono certo dettagli secondari sul piano storico concreto ma neppure su quello ideologico e di principio. In definitiva, se Monsignor Tiso ha preso dal fascismo solo gli elementi compatibili con la dottrina cattolica e gli interessi storici del suo popolo, ne consegue che praticamente tutti gli elementi portanti di un regime e di uno Stato fascisti sono da un lato compatibili con il cattolicesimo, e dall’altro, positivi per il popolo e per la sua integrità! Se qualcuno pensava di scavare così un fossato tra dottrina sociale cattolica e fascismo europeo, ha ottenuto il risultato diametralmente opposto.
È evidente che la Chiesa da una parte non può rinnegare apertamente un proprio martire, un sacerdote e un politico che ha dedicato la sua intera vita allo studio e alla realizzazione della dottrina sociale cattolica e al bene spirituale e materiale del suo popolo, ma è altrettanto evidente che per opportunità politica e per convinzione “postconciliare” troverebbe oggi troppo scomodo rivendicarlo e citarlo ad esempio e si trova così in una situazione di stallo. Una situazione che potrebbe prolungarsi ancora a lungo, ma certo non per sempre. Presto o tardi anche il “caso Tiso” diventerà pietra di inciampo, testata d’angolo, e non solo per gli slovacchi ma per tutti gli europei degni di questo nome.