Nel più profondo silenzio mediatico continua, in sede di Consiglio europeo, la battaglia di Viktor Orbán e Mateusz Morawiecki contro il Recovery Fund.
I due capi di stato infatti, rispettivamente rappresentanti di Ungheria e Polonia, continuano a tenere la barra dritta sul veto all’adozione del bilancio comunitario, che condizionerebbe l’esborso di denaro verso gli Stati aderenti all’obbligo di sottostare al rispetto della clausola che i tecnocrati chiamano “stato di diritto”.
Per “stato di diritto” la maggioranza degli aderenti intende il “rispetto delle regole fondamentali per la democrazia”.
Perché quindi Polonia ed Ungheria appongono il veto?
Perché questo comporterebbe dover rivedere radicalmente la politica di gestione dei flussi migratori in entrata, cosa che i due leader si guardano molto bene dal fare.
In passato, i governi di Varsavia e Budapest sono stati accusati di diverse violazioni di diritti e libertà fondamentali. Accuse per lo più politiche, sia chiaro, che solo in alcuni casi hanno portato a procedure d’infrazione e sentenze di condanna.
Condanne come quella ricevuta dall’Ungheria per la cosiddetta “legislazione anti-Soros”, che introduceva una serie di restrizioni verso le università straniere in Ungheria, tra le quali quella fondata per l’appunto dal magnate George Soros (statunitense di origine ungherese e spina nel fianco del leader di Fidesz).
Il governo di Orbán è stato condannato dalla Corte di giustizia anche per le sue leggi in tema di ONG, le quali prevedono il carcere per chi assiste i migranti arrivati illegalmente in Ungheria, e sulle procedure per i richiedenti asilo.
Secondo il meccanismo sullo “stato di diritto” presente nell’accordo tra Parlamento e Consiglio, l’Ungheria potrebbe venire sanzionata anche per queste violazioni.
Triste, squallido e sconfortante che l’Unione Europea condizioni e parametri di fatto l’emissione degli aiuti economici (seppur basati su metodi usurai) per affrontare l’emergenza sanitaria alla gestione dell’immigrazione più o meno in linea con i diktat proveniente da Bruxelles.
Nonostante l’appoggio dello sloveno Jansa, i due si trovano soli a lottare contro quello che in piena regola risulta essere un ricatto politico degno di tempi forse ancora più cupi di quelli che stiamo vivendo.
Si sfrutta e si strumentalizza l’emergenza economica dovuta a quella sanitaria per obbligare gli stati europei ad accogliere migranti, a non varare leggi in tutela della Famiglia, ad accettare che le proprie politiche interne siano totalmente asservite ai diktat dell’UE.
Il Parlamento europeo ha già fatto sapere di non voler mettere mano sulla clausola, paventando l’ipotesi di un passaggio della questione di fronte alla Corte di Giustizia UE.
Nonostante il veto proveniente dall’est stia bloccando anche i fondi destinati all’Italia, non rimane che augurarci che gli unici due Paesi rimasti faro per l’autodeterminazione dei popoli europei riescano ad avere ma meglio su Merkel e compagnia belante.