“Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma svuotò sé stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.”

Il celebre passo di S. Paolo (Fil 2,5-11) ci apre a quel mistero di Cristo che, dal punto di vista teologico e biblico, va sotto il nome di “Kenosi“.

Nelle imminenti festività natalizie, vorrei qui proporre una breve riflessione teologica su quella frase «svuotò sé stesso», in greco ekénosen, un verbo che ha dato origine a un vocabolo “tecnico” della teologia, kénosis, destinato appunto a indicare l’abisso in cui Dio precipita nel Figlio morto in croce e umiliato. Il Figlio di Dio decide, con un atto libero, di svuotarsi di sé stesso, ossia estraniarsi dalla sua forma divina e prendere la natura umana. È, questo, il segno pieno e definitivo di quel mistero centrale del cristianesimo chiamato incarnazione.
Nella kénosis“svuotamento” si ha, infatti, il vessillo e la sintesi della storia di Gesù di Nazareth, divenuto uomo tra gli uomini, povero, umile, condannato a una pena capitale infamante, riservata solo agli schiavi e ai ribelli antiromani. Eppure, quello “svuotamento” liberamente scelto da Cristo non ne annienta la divinità. Desiderando questa comunione di amore con noi uomini, in un movimento ekstatico, Cristo sceglie di venire in mezzo a noi: è l’incarnazione, l’umanizzazione di Dio, la sua decisione di diventare uomo. Noi siamo ormai abituati a questa affermazione, ma si pensi a come essa dovesse suonare folle, blasfema agli orecchi non solo degli ebrei, ma anche dei pagani: Dio che diventa uomo, ovvero ciò che Egli per definizione non è, ciò che noi siamo, è l’assurdo, l’inconcepibile. Questo grande mistero può dare le vertigini a chi lo contempla con consapevolezza: Cristo, colui che era Dio, si è svuotato della sua condizione divina, e ciò gli ha permesso la vita umana, la vita sulla terra da vero uomo. È così che va inteso il secondo verbo dell’inno: “svuotò sé stesso” (Fil 2,7).

L’inizio del percorso di incarnazione è espresso dal verbo kenóo, “svuotare”, utilizzato in riferimento a una realtà che si spoglia di tutto ciò che è sua prerogativa, che abbandona tutti gli attributi che la contraddistinguono. In termini concreti, Gesù ha accettato la morte invece di essere immortale, ha accettato una condizione limitata e soggetta a fragilità, quella della nostra carne, lui che era santo ha accettato di poter essere tentato dal diavolo, sedotto dal male: “È stato Cristo ad abbassarsi, non è stato abbassato: nessuno, né in cielo, né sulla terra, né negli abissi poteva abbassarlo” (Soren Kierkegaard).

Di vertiginosa teologia sono gli scritti di Sant’Agostino sul Natale (disc. 196): “È spuntato per noi questo giorno solenne del Natale del Signore nostro Gesù Cristo; giorno di Natale, nel quale è nato Cristo, il vero giorno; proprio oggi, perché da oggi il giorno comincia a crescere. Due sono le nascite del Signore nostro Gesù Cristo una divina, l’altra umana, ambedue mirabili; quella divina senza una donna come madre, quella umana senza un uomo come padre. Quanto predisse il santo profeta Isaia: “La sua generazione chi potrà spiegarla?” 

Di fronte ad un Dio che si rivela nel segno dell’umiltà, l’uomo non può che spogliarsi di ogni segno di grandezza e di superbia. Agostino stesso lo ricorda nelle Confessioni (VII, 9, 13), riportando la propria esperienza: “In primo luogo Tu hai voluto farmi vedere come Tu ti opponi ai superbi e largisci la tua grazia agli umili; e con quanta misericordia hai additato agli uomini la via dell’umiltà, dal momento che il tuo Verbo si è fatto carne ed abitò in mezzo agli uomini”. Solo chi segue la via dell’umiltà può riconoscere nel corpo di un bambino il Figlio di Dio.

Ma abbiamo un grandissimo ostacolo, aggravato dal fatto che siamo peccatori: è il nostro ego fortissimo, la tendenza a farci centro negli altri, a sacrificare gli altri al nostro io, a interpretarci come assoluti, a impedire di avere gli stessi sentimenti di Gesù. Così abbiamo rotta la relazione con Dio, non abbiamo più riconosciuto in lui l’Assoluto.
Questo istinto potentissimo di auto-affermazione è nascosto in tutti.

Ci sono persone tormentate perché non sono quello che vorrebbero, devastate dall’invidia, annullate dal senso della loro inferiorità, ubriacate dal senso della loro superiorità. Il vivere per sé non fa felice nessuno. Siccome la nostra auto-affermazione è poderosa, l’auto-negazione deve essere radicale, perché come accetto di annullarmi, risorgo. E non solo resurrezione dopo la morte, ma quel vivere già con spirito risorto che è proprio un allargare il cuore.

Concludo questa riflessione teologica con un passo di San Gregorio Nazianzeno: “Egli, Gesù, ti vuol bene”.
Questa parola di tenerezza è per noi una grande consolazione, un conforto e anche una grande responsabilità giorno per giorno.

“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”.
(Gv 1, 14)

Ecco, abbiamo davanti il Cristo Bambino: cresciamo insieme con Lui.
Buon Natale!

Alessandro Prof. Dott. Tamborini
*Plenipotenziario per le politiche di tutela e promozione del patrimonio storico-artistico-demo-etno-antropologico. Cattedratico di Scienze Religiose, Storia e Simbolismo dell’Arte Antica e Medievale.

ICONOGRAFIA DELL’IMMAGINE DI COPERTINA

L’“Adorazione dei pastori” di Andrea Mantegna è tra le opere attribuite alla fase giovanile della sua attività. L’opera di piccolo formato si ritiene commissionata da Borso Este in occasione del secondo soggiorno dell’artista a Ferrara del 1450-1451. La scena è ambientata all’aperto, con la Madonna al centro che adora il Bambino inginocchiata su un gradino di pietra, mentre alla sua destra san Giuseppe dorme e a sinistra due pastori si piegano devotamente in atteggiamento di preghiera, nella povertà esaltata dei loro poveri abiti. Il sonno di san Giuseppe, rappresentato in disparte, ricorda la sua funzione di custode della Vergine e del Bambino. Si evidenzia qui, come nella tradizione orientale-bizantina che Giuseppe nulla c’entra, umanamente, con quella nascita divina. Il colloquio tra Vergine e Bambino, circondati da angioletti che solennizzano l’evento, è caratterizzato da una notevole intimità. Gesù è raffigurato di scorcio, un tipo di veduta virtuosistica che ricorre nella produzione di Mantegna. A sinistra si trova anche un giardino recintato (in riferimento all’hortus conclusus che simboleggia la verginità di Maria), da cui si affaccia il bue, e alcune assi che rimandano alla capanna dove è avvenuta la natività. A destra un ampio paesaggio che si apre in profondità, incorniciato da due montagne fatte di rocce a picco. È lo zenith, l’elevazione della incarnazione di Cristo così come i pilastri che fondano la Storia della Salvezza: Antico e Nuovo Testamento. In lontananza, a destra, si vedono altri pastori e un grande albero che sembra ricordare la forma della Croce del Calvario, presagendo la Passione di Cristo

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