Per raccontare di Attilio Mordini, barone di Selva, partiamo da due luoghi nel centro storico di Firenze: uno studio presso la casa di famiglia in via San Gallo, che Fausto Belfiori descriverà: “assomigliava alla cella di un monaco studioso e mistico del medioevo” e poi la cappella detta di San Tommasino in via della Pergola, messa a disposizione dal conte Neri Capponi. In questi luoghi si formò un cenacolo, spirituale ma anche politico, animato da Attilio Mordini. Tra i frequentatori degli incontri del giovedì o comunque tra i giovani che ebbero frequenti contatti anche epistolari con Mordini, molti nomi che acquisteranno successivamente un rilevo culturale nazionale: Neri Capponi, Adolfo Oxilia, Giovanni Cantoni, Domenico Fisichella, Franco Cardini, Primo Siena, Fausto Belfiori, Giano Accame, Alfredo Cattabiani e molti altri.
Amerino Griffini, giovanissimo frequentatore sedicenne, così ricorda quegli incontri: “Attilio ci parlava di de Maistre e della mitologia nordica, della Tradizione e di Ingmar Bergman, della Cavalleria e di Maria, ma anche di un’Europa che si doveva liberare dagli imperialismi e dei propri miopi nazionalismi”. E Franco Cardini: “Ci ritrovavamo nella sua casa fiorentina di San Gallo, dove lui discuteva, suggeriva temi e problemi, prestava dei libri, proponeva scelte di vita, assegnava ricerche a noi, dei venti-trentenni che mai egli volle considerare discepoli ma che intimamente e profondamente si sentivano tali.” E così confessa lo storico: “Crediamo che l’incontro con Attilio sia stato, dal punto di vista culturale e spirituale, il più importante della nostra vita.” E ancora: “Gli debbo l’avermi insegnato a leggere Tommaso d’Acquino e Dante. […] Mordini ci fornì le chiavi essenziali per una critica serrata, non isterica né preconcetta, della modernità […] ci introdusse alla lettura di autori quali Burke e de Maistre […] fu lui a farci conoscere per primo i lavori di Mircea Eliade e di George Dumézil”. Degno di nota il fatto che in questo cenacolo venne ospitato, nel 1965, anche il pensatore e politico belga Jean Thiriart, nazionalista europeo, ostile agli opposti imperialismi americano e sovietico, fondatore del movimento Jeune Europe, a cui aderì anche il giovane Franco Cardini.
Ci rattrista sapere da Amerino Griffini che nella sede di San Tommasino ha sede oggi la Comunità di Sant’Egidio, espressione del più estremo e potente modernismo ecclesiale, quella che trasforma bellissime chiese barocche in puteolenti mense per clandestini.
Ma chi fu, veramente, Attilio Mordini, che Carlo Fabrizio Carli, curatore del volumetto Il cattolico ghibellino, definisce “Maestro segreto”? In un certo senso, lo possiamo considerare una delle ultime espressioni di quella toscanissima filiera di cattolici integrali e radicalmente antimoderni dei Tozzi, dei Giuliotti, dei Papini. Attilio Mordini guarda in alto con sguardo metafisico e metastorico, rivolto all’Eterno. È inattuale, splendidamente inattuale: “tu scrivi come un monaco medioevale”, gli dirà Sergio Quinzio. Eppure non ebbe paura a impegnarsi, con spirito cavalleresco, nel combattimento bellico prima e politico poi. Un uomo completo, uno di quelli che gli spagnoli definiscono un hombre vertical.
Nasce a Firenze il 22 giugno 1923, figlio del Colonnello Gino Mordini. Fin da giovane dimostra un forte orientamento religioso e, al contempo, turbolento. Studia dagli Scolopi e dai Salesiani. Scoppiata la guerra, Mordini si arruola volontario nelle file della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e viene inviato sul fronte russo. Approfittiamo della biografia di Oscar Sanguinetti pubblicata on-line su Cultura e Identità: “Nel 1943, alla caduta del fascismo, con un manipolo di giovani fiorentini, nella prospettiva di combattere a fianco di altri cattolici europei nella crociata anti-bolscevica lanciata da Adolf Hitler invadendo l’Unione Sovietica, si arruolò ancora volontario nei pionieri della IV Divisione Panzer della Wehrmacht – c’è chi dice delle Waffen SS – impiegata in Ucraina. Qui riportò il congelamento di un piede e fu ricoverato in ospedale a Monaco di Baviera”.
Tornato in Italia, si arruolò nella Guardia Nazionale Repubblicana della R.S.I. dove gli fu assegnato il grado di capitano e il ruolo di addetto stampa. Dopo la tragedia del 25 aprile, fu catturato dagli americani e internato, per alcuni mesi, nel carcere di Belluno. Ma, in quanto “vinto”, le persecuzioni non erano finite e dovette rendersi latitante, perché nuovamente ricercato dalla polizia partigiana per la sua militanza fascista. Peregrinò fra Mestre, Pompei e Roma, dove fu ospitato in una casa dei gesuiti. A Roma s’iscrisse alla Pontificia Università Gregoriana; nello stesso periodo entrò nel Terz’Ordine francescano con il nome di “fratello Alighiero”. Tornato a Firenze, nell’ottobre del 1946 fu denunciato da un delatore e arrestato mentre stava iscrivendosi all’Università. Secondo altre versioni, fu lui stesso a consegnarsi per evitare alla madre le frequenti, violente visite a casa dei “liberatori” alla caccia di fascisti. Venne incarcerato per un anno alle Murate dove, per il regime duro, per le percosse e le torture subite, contrasse la tubercolosi. La malattia non venne curata a dovere in carcere e Mordini ne portò sempre i dolorosi strascichi, che lo portarono a una fine prematura.
Dopo la prigionia e un periodo in sanatorio, riprese gli studi, laureandosi con lode in letteratura tedesca. Più tardi tenne corsi di italianistica in Germania, all’Università di Kiel. Iniziò quindi la sua produzione intellettuale, con la collaborazione con diverse riviste letterarie come L’Ultima, fondata da Giovanni Papini e Adolfo Oxilia e da questi diretta, che fu veramente l’ultima della grande tradizione delle riviste fiorentine. Poi i fogli tradizionalisti e di destra: L’Alfiere di Napoli, diretto da Silvio Vitale; Il Ghibellino di Palermo, di Giovanni Allegra; Adveniat Regnum di Roma, promosso da Fausto Belfiori; Pagine Libere del sindacato di destra CISNAL, Carattere di Verona, fondato da Primo Siena. Con quest’ultimo autore Mordini ebbe una reciproca consonanza intellettuale: definì il suo lavoro “del tutto complementare al nostro” e Primo Siena gli dedicò un affettuoso ritratto nel libro Incontri nella terra di mezzo, edito da Solfanelli. Contribuì anche a riviste internazionali di studi religiosi come Kairós, diretta da Mathias Vereno dei benedettini di Salisburgo e Antaios, di Ernst Jünger e Mircea Eliade, pubblicata a Stoccarda.
Ma non ebbe timore di “sporcarsi le mani” con la politica: come ci relaziona Maria Camici, curatrice di Povertà regale, una raccolta di suoi scritti, Mordini non nascondeva affatto il suo “passato di combattente volontario nella Repubblica Sociale”. Con la sua abituale autoironia, si definiva un “fascistello di sacrestia”. Maria Comici e Franco Cardini, nel loro libro Attilio Mordini, il maestro dei segni, edito da Il Cerchio, citano un brano del suo diario 1953-1954: “Essere fascisti oggi significa appartenere a una schiatta nuova: non lo si diventa abbracciando un’opinione politica […] siamo una stirpe che ha nel sangue il principio aristocratico”.
Fu sempre vicino al Movimento Sociale Italiano e collaborò con la pagina culturale del Secolo d’Italia e con L’ora d’Italia, il mensile del partito a Firenze. Polemizzò con il discusso sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, antesignano del cattocomunismo, e aul Secolo d’Italia del 1° agosto 1964, lo accusò apertamente di eresia. Certo, le sue posizioni ghibelline, di devozione tutta dantesca all’Impero e al contempo teocratiche, potevano apparire non sempre consonanti con certe venature di nazionalismo giacobineggiante presenti in quell’area politica, anche se non mancavano di certo idealità tradizionaliste molto vicine al sentire di Mordini. Nel 1963, per spirito di servizio, accettò una candidatura alle elezioni nazionali nelle liste del MSI, pur senza alcuna prospettiva di successo nella rossa Toscana.
In coerenza con la sua visione della vita, Attilio Mordini tenne sempre ferma una visione “alta” della politica e dell’agire nel mondo. Militia est vita hominis super terram. Il suo ideale prevedeva un sentire cattolico virile: “si è andata sempre più manifestando negli ambienti del laicato cattolico e, soprattutto nelle associazioni giovanili, una grave carenza di virilità”, scriverà nel Tempio del Cristianesimo. Testimonia Primo Siena: “nella Firenze del dopoguerra, Mordini rappresentò contro il guelfismo modernista dei La Pira e dei Balducci, la tradizione civile e cavalleresca del Cattolicesimo virile”. E ancora: “La decisione che portò Mordini ad istituire a Firenze un cenacolo religioso e culturale intitolato a Maria “Janua Coeli” è profondamente connessa al suo auspicio per il nascere nella Chiesa Cattolica di un laicato virile atto a incarnare i valori aristocratici del Medioevo cristiano e cavalleresco”.
Non è per nulla facile riassumere il senso del suo pensiero e della sua opera. Si può dire che il suo fu uno sguardo spirituale e un’indagine eminentemente metafisica sull’Origine – Adamo, l’Eden e la caduta – una lettura attenta dell’Apocalisse giovannea, sulle tradizioni e sulla Tradizione cristiana, sulla crisi attuale della società e le sue cause, sull’essenza sovra-terrena del linguaggio, sui miti e sul loro significato ultimo. E poi la difesa dei valori tradizionali, la critica radicale del mondo moderno e della democrazia (“la cultura democratica come inversione demoniaca”). Le cause della decadenza della nostra civiltà sono metafisiche: “Quando le forme in cui si esprime una determinata civiltà accennano a decadere ponendo in crisi la civiltà stessa sin dalle sue fondamenta, se ne devono sempre ricercare le cause in una carenza metafisica”.
Pubblicò il suo primo libro, Il segno della carne, sotto pseudonimo di Ermanno Landi nel 1959: è un saggio sull’amore e sul matrimonio. Il libro contiene in nuce molti temi del sentire di Mordini, disvelandone la sua profondità e la sua fede.
Il Tempio del Cristianesimo, del 1961, è il testo che più di altri rivela la sua visione metastorica e metapolitica. Qui Mordini ripercorre la Storia umana, sempre con il suo sguardo rivolto al Mistero cristiano, nella convinzione, solidamente cattolica, di un senso ultimo nel succedersi degli accadimenti: “Se la storia non avesse alcun significato, l’intera umanità, la presenza dell’uomo nel mondo, si ridurrebbe a un assurdo e vano agitarsi di larve”, è l’incipit del libro. Dedicato significativamente a Carlo d’Asburgo, Imperatore santo, il libro si sofferma sul Medioevo, civiltà cristiana per eccellenza: “il medioevo può definirsi il periodo di affermazione nel mondo, e quindi nella storia, del cristianesimo”.
Cristianesimo quale sintesi del mondo antico, delle tradizioni precristiane, di Platone e di Aristotele: “Se il Cristianesimo […] è vera sintesi, e come tale muove dal Verbo, era fatale il suo affermarsi sul sincretismo di Roma antica realizzando la fusione dell’eroismo germanico con il pensiero greco e il diritto romano”. Il testo è anche la chiara descrizione del suo pensiero metapolitico, del suo ghibellinismo teocratico che si regge sulla visione dantesca dei due soli: “se luce che illumina ogni uomo veniente al mondo è Cristo, due soli di questa stessa luce dovevano essere il Romano Pontefice e il Romano Imperatore”. Due complementari potestà: il recte scire del Papa e il recte agere dell’Imperatore.
Il medioevo è da Mordini descritto con profonda ammirazione: gli sforzi coraggiosi degli Imperatori, come il vituperato Barbarossa, per tenere insieme un’ecumene organica e al contempo differenziata e gerarchica, le cattedrali gotiche, la cui verticalità chiamava le genti attorno all’asse celeste, gli ordini monastici, san Tommaso e san Bonaventura (Franco Cardini definì Mordini “teologicamente tomista e spiritualmente francescano”). Sempre con lo sguardo rivolto in alto, sente l’Impero e la sua gerarchia come “immagine e somiglianza dei cori angelici”.
Poi il trionfo dello spirito mercantile (“…i ricchi sorti dalla nascente società guelfa e mercantile; ed era quella società guelfa che rappresentava, allora, il primo segno di progressismo”), la rottura, con le monarchie nazionali, della gerarchica ecumene imperiale (“L’eclisse inizia con la carenza della luce prima, dell’Impero”), poi la Riforma, l’Umanesimo e il Rinascimento, i Lumi, la rivoluzione francese, il martirio di Luigi XVI (“Salì alla ghigliottina con cristiana e aristocratica fermezza”). Poi “il Risorgimento borghese”, rispetto al quale il giudizio di Mordini è assai severo, anticipando tutta una storiografia legittimista e anti-risorgimentalista tutt’ora ben viva e vivace. Il suo giudizio sull’azione rivoluzionaria del liberalismo è nettissimo: “il progresso del libero pensiero si manifestava per quello che veramente era ed è tutt’ora: la rivolta organizzata delle potenze infere […] contro l’unità, l’autorità e l’ordine.” Mordini paragona simbolicamente la storia moderna alla lacerazione della veste inconsutile di Cristo “senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo (Gv 19, 23)”: “Tutta la storia moderna, in quanto vantata emancipazione del mondo dall’autorità della gerarchia ecclesiastica e dalla podestà della gerarchia feudale dell’Impero, altro non è che la lacerazione di quella veste”.
In un capitolo titolato La Reazione Nazionale, Mordini così giudica il tragico epilogo del grande conflitto: “quanti si sono scagliati contro l’asse Roma-Berlino per combattere il nazismo in nome della civiltà, non hanno fatto altro, in effetti, che lottare per la Russia sovietica e per l’affermarsi del comunismo nel mondo. E ancora una volta il piano di Satana è riuscito in pieno”.
Il senso dell’opera ce lo fornisce lo stesso Mordini nell’ultima pagina del testo, e il valore di quelle parole è tutt’ora assai attuale: “Contro alla cieca stoltezza di quanti continuano ancora a presentarci un Cristianesimo depauperato, abbiamo voluto considerare la storia della civiltà cristiana come edificazione di un tempio, di una meravigliosa cattedrale, concretamente terrena, ma con le sue guglie arditamente svettanti al cielo, anche se, purtroppo, non abbiamo potuto né voluto nasconderci le pietose condizioni in cui versa nei tempi moderni”.
Adolfo Morganti ha ripubblicato il libro con la sua casa editrice il Cerchio, arricchendolo con un saggio introduttivo di Mario Bernardi Guardi. Assai interessante, nel Tempio del Cristianesimo, è la bibliografia, perché ci indica con chiarezza gli ispiratori intellettuali di Mordini (a cui dobbiamo aggiungere i classici de Maistre, de Bonald, Donoso Cortes e i più vicini, toscanissimi Giuliotti, Papini, Tozzi). Tra molti altri, troviamo Mons. Antonio de Castro Mayer, Plinio Correa de Oliveira, Francisco Elias de Tejada, Julius Evola, René Guénon, Emmanuele Malinsky e Leone de Poncins, José Antonio Primo de Rivera, Oswald Spengler, Gustav Thibon.
Due nomi vanno sottolineati: René Guénon e Julius Evola, tradizionalisti non cattolici e in particolare quest’ultimo. Infatti Attilio Mordini è stato definito da molti “l’Evola cristiano”, definizione rifiutata con parole poco pacate da Franco Cardini: “inaccettabile leggenda semicolta, figlia di letture riduttive”, che pure è costretto ad ammettere che certamente i due autori, Evola e Guénon erano “ben presenti negli scafali della sua biblioteca”, ed “erano stati influenti per la sua formazione di sostenitore della Tradizione sapienziale e sacra; le idee espresse soprattutto nella sua relazione al primo Convegno Tradizionalista Italiano tenutosi a Napoli nel 1962 ne sono una testimonianza”.
Tuttavia le analogie tra Mordini ed Evola sono innegabili; la visione metastorica del Tempio del Cristianesimo mordiniano e quella della Rivolta contro il mondo moderno evoliana si basano su valori assai vicini: la visione antimoderna e antidemocratica, lo sguardo rivolto al Sacro e alla Tradizione, il rifiuto dell’Umanesimo, dell’Illuminismo, della rivoluzione francese, della sovversione social-comunista, l’apprezzamento dei Fascismi europei e soprattutto la ricerca di un significato metastorico degli avvenimenti.
Il “pagano” Evola rappresentò, per molti giovani militanti a Destra, l’apertura del mondo luminoso della Tradizione e il superamento di una visione politica nostalgica, legittima ma ristretta, che pure non venne mai rinnegata, ma reinterpretata alla luce di una cultura ben più alta anche nella sua lettura metastorica. Evola rappresentò, per una provvidenziale eterogenesi dei fini che lo stesso grande pensatore tradizionalista non condannò mai, anche un momento di passaggio da una spiritualità forse affascinante, quella esoterico-pagana, ma priva, almeno per molti, di ogni prospettiva personale di realizzazione, alla Tradizione della Rivelazione salvifica cristiana. Non furono casi isolati e questo “transito” spirituale, che alcuni cattolici “integralisti” ancora negano e non capiscono nella loro condanna inappellabile e intellettualmente ottusa di Evola e di Guénon, rappresentò uno delle manifestazioni spirituali di quegli anni.
Ci piace ripeterlo: è legittimo vedere un intervento provvidenziale in ciò. Vale riproporre alcune significative testimonianze di questo “transito” o, per alcuni già cattolici, di rafforzamento nella Fede. Fausto Gianfranceschi: “Pur non essendo Evola cattolico, paradossalmente le sue opere riuscivano, in chi di noi lo era, a rafforzare la convinzione che la filosofia perenne della Chiesa fosse l’unica forma di pensiero vivente”. Primo Siena: “Resto grato ad Evola il quale – nonostante le contraddizioni del suo magistero pagano – mi spinse fuori dalla selva oscura delle posizioni culturali spiritualmente equivoche dell’illuminismo – aprendomi indirettamente il cammino metapolitico, che conduce alla soleggiata Città di Dio”. Luca Gallesi: “Evola […] alfiere del paganesimo imperiale, contribuì più di ogni altro pensatore “di destra” alla conversione al Cattolicesimo di moltissimi neofascisti”.
La lettura di Attilio Mordini ovviamente contribuì, e non di poco, a questo fausto “trasbordo”. Pino Tosca, cattolico tradizionalista, dirigente missino, autore de Il cammino della Tradizione edito da il Cerchio, unico tentativo di storia del tradizionalismo italiano, così testimonia: “Da Evola a Cristo, quindi. Per molti militanti nelle formazioni neo-fasciste questo “transfert” di ricerca spirituale era diventato obbligante dopo la lettura dei libri di Attilio Mordini di Selva. […] Evola aveva aperto la strada verso una metapolitica che era ricerca dell’Assoluto, Guénon aveva indicato alcune “possibilità” realizzative di tipo “tradizionale” nell’epoca presente”. Ma chi si abbeverava a queste dottrine esoteriche, “non riusciva ad esplicare nulla di sostanziale nella sua vita che non fosse una pura curiosità intellettuale. […] Furono i libri di Mordini che, per molti, costituirono il “ponte” dalla Tradizione intesa evolianamente (senza, cioè, possibilità concreta di incarnazione storica in una forma definita) alla Tradizione intesa cristianamente”.
Silvio Vitale, nella sua prefazione al testo di Paolo Rizza, Attilio Mordini e il senso della Tradizione, così puntualizza l’atteggiamento di Mordini verso Evola: “Non sollevò ostracismi verso la componente evoliana, anzi pose in rilievo come il forte richiamo alla tradizione proclamato da Julius Evola avesse operato nel senso di una conversione verso il cattolicesimo”.
Pubblicato nel 1966, Dal mito al materialismo ci offre una disanima di un altro dei temi cardine del pensiero mordiniano: il mito. Nella prima parte dell’opera, Mordini esamina alcune delle fiabe tradizionali svelandone il significato simbolico e rituale (ben ci ricorda che la parola rito deriva una radice sanscrita che significa ordine) e il portato metafisico che queste storie celano. Il suo esame si estende poi a opere letterarie e cinematografiche (come Il settimo sigillo e La fontana della vergine di Ingmar Bergman, regista da lui assai amato).
La seconda parte del testo è formato da una serie di riflessioni sulla cultura espressa da quel Cristianesimo che, afferma Mordini con il consueto sguardo metastorico, riprendendo sant’Agostino, “è sempre esistito sin dal principio del mondo”. In uno di questi saggi, La falsa cultura dell’acquiescenza, rivendica la necessità, da parte cristiana, di un atteggiamento ben più fermo nei confronti del marxismo: “Non blandizie, dunque, ma fermezza, non cedimenti femminei, ma virile imposizione della verità, non dialoghi, ma guerra santissima; anche se non con le armi, certo con la parola, perché come la spada è il verbo e la vita è milizia”. L’edizione del 1966 è aperta da una illuminante prefazione di Giovanni Cantoni con pertinenti citazioni di René Guénon ed Elémire Zolla. L’opera è stata quasi integralmente ripubblicata in due volumi da il Cerchio: Il segreto cristiano delle fiabe e Verità della cultura.
Un altro tema fondamentale nella riflessione mordiniana riguarda il linguaggio: la Parola che illumina, che salva. Ne tratta ne La verità del linguaggio, con una prefazione del domenicano padre Raimondo Spiazzi, edito da Volpe. Non è un testo facilmente sintetizzabile: nel miglior stile mordiniano, è una serie di considerazioni storiche (Roma, Dante, il Medioevo) e metastoriche, bibliche e mitiche, che hanno come filo conduttore, appunto, la verità del linguaggio, la sua essenza divina, la sua capacità evocativa e magica, il suo intrinseco simbolismo e la sua valenza cristiana. Non per nulla il testo più metafisico e teologicamente “alto” del Nuovo Testamento, il Vangelo di san Giovanni, ha come incipit: “In principio erat Verbum”. E il Verbo, la Parola è centrale nel mistero cristiano: la Creazione, l’Eden, la Caduta, l’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Nostro Signore. Verità di linguaggio ci offre squarci nel cielo che ci fanno intravvedere, quasi profeticamente, una siderea realtà ultramondana. Scrive padre Spiazzi nella sua prefazione: “Mordini svolge un discorso che riporta la parola umana alla sua origine divina nel Verbo consustanziale al Padre nell’unità con lo Spirito”.
Un’altra vetta della metafisica mordiniana viene raggiunta da Il mito primordiale del Cristianesimo quale fonte perenne di metafisica, edito da Scheiwiller nel 1976 e riedito da il Cerchio nel 2019. È un’opera di straordinaria potenza, anche espressiva, una grandiosa, profonda e alta riflessione metafisica sull’Origine: la creazione del mondo, la satanica ribellione del “non serviam”, la lotta tra Lucifero e l’Arcangelo Michele, la creazione dell’uomo, la sua natura prima del Peccato Originale, l’Incarnazione del Verbo. Ben solidi i riferimenti di Mordini: i profeti, san Giovanni e la sua Apocalisse, i Padri della Chiesa, san Bonaventura e san Bernardo, sant’Agostino, san Tommaso, Dante. Ben emerge la devozione di Mordini nei confronti degli Angeli e la fede nella loro importanza nell’economia cosmica.
Nel desolante panorama del pensiero cristiano attuale, ove la metafisica è stata silenziata e disprezzata dalle melmosità desacralizzanti, orizzontali e terrene, eredità delle ambiguità conciliari, degli orrori postconciliari e modernisti, la lettura di questo libro è uno sguardo sull’Eterno, uno squarcio nella cappa soffocante del conformismo materialista-buonista della cosiddetta “pastorale” di cui siamo oggi vittime, uno sguardo sull’azzurro profondo del cielo della metafisica.
Del tutto particolare è l’ultima opera di Mordini prima della sua morte: Il mistero dello Yeti alla luce della tradizione biblica, pubblicata postuma dall’editore Il Falco di Milano nel 1977 e ripubblicata da Cantagalli. Mordini la lasciò inedita perché pensava di riprendere l’argomento in un lavoro dal taglio più ampio e approfondito. Nonostante l’apparente bizzarria del titolo, il testo è un’altra riflessione esegetica sulla Genesi, sull’umanità dopo la Caduta, sul Diluvio. Assai opportunamente il prefatore della prima edizione, Franco Maestrelli, sottolinea che per leggere correttamente questo testo “è indispensabile non isolarlo dalla restante produzione mordiniana”. Infatti, “se si tralascia di dare unità a tutta l’opera di Mordini si corre il rischio […] di fraintenderne il senso e di chiedersi lo scopo della pubblicazione”.
Di Mordini meriterebbero più di un accenno la solida amicizia e il sodalizio culturale instaurato con Pietro Porcinai, tra i migliori architetti paesaggisti italiani, un vero maestro che ha fatto scuola tra i paesaggisti italiani successivi. Le sensibilità dei due erano chiaramente convergenti: una visione comune della natura e del paesaggio, la costante ricerca del Bello, la visione del giardino come luogo carico di simboli e di rimandi metafisici: nell’antico iranico indoeuropeo, “paradiso” significava “giardino recintato”. L’amicizia tra i due produsse un bel saggio a quattro mani edito da Fabbri, Giardini d’Occidente e d’Oriente. Il testo venne poi rieditato, completato rispetto alla prima edizione, dall’editore Settimo Sigillo con una prefazione di Franco Cardini.
Ma sempre di più si aggravava la dolorosa malattia causata dai maltrattamenti subiti in prigione dai “liberatori”. Il passaggio terreno di Attilio Mordini di Selva, fra’ Alighiero, Terziario Francescano, si concluse proprio il 4 ottobre 1966, festività di san Francesco. Non una casualità (per un cattolico, il caso non esiste, esiste la Provvidenza), ma una chiamata, anzi, la Chiamata. Aveva 43 anni.
Che ne è stato del suo ricordo spirituale, della sua eredità intellettuale? Il gruppo di amici che partecipava ai suoi gruppi fondò il Centro Studi Attilio Mordini, presieduto da Adolfo Oxilia. Come si è già accennato, Mordini influenzò direttamente un’intera generazione di intellettuali cattolici, come Franco Cardini, Fausto Belfiori, Giovanni Cantoni, Primo Siena, Pino Tosca e molti altri. Dopo le prime pubblicazioni dei suoi testi negli anni ’60 e un periodo d’oblio editoriale, a partire dal 1995 si è manifestata quella che Adolfo Morganti ha definito Mordini renaissance: non solo ripubblicazione delle sue opere, ma anche biografie, come quella già citata di Rizza, Attilio Mordini e il senso della tradizione e quella di Camici-Cardini: Attilio Mordini, il maestro dei segni. Sono state pubblicate due raccolte antologiche di suoi articoli: Il cattolico ghibellino a cura di Carlo Fabrizio Carli, edito da Settimo Sigillo e Povertà regale, a cura di Maria Camici, Cantagalli editore.
È stato attivo un Premio alla Cultura “Attilio Mordini”, assegnato, tra gli altri, a Giano Accame, Massimo de Leonardis, Pucci Cipriani, Piero Vassallo, Mario Sossi, Cesare Cavalleri.
Una volta tanto, la Destra politica non ha dimenticato i suoi intellettuali: per limitarsi ai tempi recenti, lo ha ricordato Massimo Magliaro nel suo La Fiamma che non si arrende, edito da Il Borghese, definendolo “un Maestro per la gioventù missina” (ma purtroppo per la gioventù missina, fu vero solo in parte); assai recentemente la rivista Nova Historica, in un articolo di Mario Bozzi Sentieri, lo cita come “l’elemento più alto di sintesi tra la destra culturale e il mondo cattolico”, ed è indubbiamente vero.
Con condivisibile affetto, scrive l’amico Primo Siena: “Attilio Mordini convoca tutt’ora, con l’attualità del suo magistero, i cavalieri e i militi cristiani di ogni tempo”.
(Articolo pubblicato sulla rivista online Ricognizioni, in data 24 febbraio 2021)