Il “caso Moro” è uno di quegli avvenimenti che s’iscrivono a perenne memoria nella carne della storia, uno dei delitti politici più devastanti del dopoguerra occidentale. Le cronache di marzo gli dedicano regolarmente uno spazio e fiumi d’inchiostro continuano a scorrere per cercare spiegazioni, coglierne aspetti nascosti, individuarne mandanti occulti.
Non so dire se i processi celebrati abbiano scoperto tutta la verità. Che quasi sempre è molto più semplice delle nostre ossessioni; e, forse, le ipotesi dietrologiche che si agitano come ombre impazzite dietro le cause della morte dello statista democristiano sono solo fantasmi.
Ma di alcuni fantasmi è rimasta impressionata quella tragica pellicola.
Sono quelli di Giorgio La Pira e di Don Luigi Sturzo, padri nobili della DC, evocati dal professor Romano Prodi e da altri stimati docenti a Zappolino, nella casa di campagna del professor Alberto Clò (futuro ministro del governo Dini, come un altro presente, il professor Mario Baldassarri, lo diverrà nel secondo governo Berlusconi) il 2 aprile del 1978.
Visto il pomeriggio piovoso, il gruppo aveva deciso di rimanere al chiuso e, in una sorta d’improvvisato gioco semiserio, di chiedere ai due illustri spiriti democristiani – col metodo del piattino – l’ubicazione della prigione di Moro.
Oltre ad alcune parole incomprensibili, uscirono i nomi “Gradoli”, “Viterbo”, “Bolsena” e altre indicazioni comunicate due giorni dopo dal professor Prodi, di sua iniziativa, alla segreteria dell’allora capo della DC, Benigno Zaccagnini. “Non si sa mai” fu, in poche parole, la ragione di quell’informazione che determinò un’operazione di polizia nella cittadina di Gradoli, situata nel viterbese, ma che non richiamò altrettanta attenzione per l’ipotesi di una via Gradoli dove, come si sarebbe poi di lì a poco scoperto, si trovava la sede operativa romana delle BR.
Non vi fu nessuno che credette a quella spiegazione, ritenuta da tutti un paravento per nascondere la vera fonte. La magistratura, invece, l’accettò senza battere ciglio. Fu proprio alla fine di quello stesso anno che iniziò l’irresistibile ascesa del giovane professore bolognese (il più giovane ministro nella storia repubblicana) con la sua nomina al dicastero dell’Industria nel governo Andreotti IV, appoggiato all’esterno dal PCI. E anche coloro che parteciparono alla seduta ebbero carriere importanti e incarichi nella pubblica amministrazione.
Come disse il parlamentare del PD, membro della Commissione Moro, Gero Grassi (persona retta che ha assunto posizioni coraggiose anche nella vicenda “2 agosto”) “la cosa più grave non è che Prodi e Clò abbiano raccontato della seduta spiritica , ma che un magistrato abbia ritenuto credibile questa versione”.
Proprio così; c’è davvero da chiedersi come un magistrato abbia potuto accettare simili dichiarazioni, senza nemmeno segnalare – aveva di fronte dei benpensanti, non dei malavitosi – la possibilità di una denuncia per falsa testimonianza. Gli altri partecipanti alla seduta, in compenso, non furono neanche interrogati e la loro conferma della versione dei due loro colleghi rimase affidata a una lettera che sottoscrissero e inviarono tre anni dopo alla Commissione Moro.
Ve lo immaginate il tintinnar di manette se una cosa del genere fosse stata riferita, per esempio, da Almirante, da Berlusconi, da Salvini, da Rauti?
E se forse qualcuno avrà creduto a un piattino mosso dallo spirito di La Pira, nessuno potrà però dubitare di quanto registrò l’osservatorio meteorologico di Monte San Pietro, situato a pochi km da Zappolino, che segnalava il 2 aprile 1978 come giornata non piovosa, diversamente dalla spiegazione fornita dai professori. Lo rivelò un coraggioso giornalista, Antonio Selvatici, in un libro, “Prodeide”, quasi scomparso dalla circolazione.
Su come sia effettivamente giunta l’informazione a qualcuno dei presenti in quella casa di campagna si sono sbizzarriti in molti; si è parlato di soffiate provenienti da ambienti dell’autonomia di Bologna, di rapporti di Franco Piperno, leader di Potere Operaio, col professor Beniamino Andreatta, mentore di Prodi e indicato da alcuni come presunto ispiratore della copertura.
L’ipotesi più interessante è però quella rappresentata in un articolo del settimanale “Avvenimenti“ e collegata alla vicenda di Giuliana Conforto, figlia di Giorgio Conforto, spia del KGB e decorato dall’URSS ma verosimilmente doppiogiochista. La donna aveva ospitato a casa propria i brigatisti “dissidenti” Valerio Morucci e Adriana Faranda (che si erano opposti all’omicidio di Moro) e fu infatti per questo arrestata insieme ai due, salvo poi farla franca con un’assoluzione per insufficienza di prove sul presupposto di una “non conoscenza” dell’identità dei suoi ospiti e della presenza delle loro armi all’interno della sua abitazione.
La Conforto era amica di Luciana Bozzi, proprietaria dell’appartamento di via Gradoli 96, quello utilizzato dalle BR.
Secondo il settimanale, fu proprio il KGB la fonte dell’informazione e la seduta spiritica una mise en scene per coprirla.
In questo quadro s’inseriscono le accuse rivolte a Prodi di aver intrattenuto rapporti stretti col servizio segreto sovietico. A lanciarle, ex agenti del KGB ascoltati dalle commissioni d’inchiesta di alcuni paesi europei dopo lo scandalo scaturito dalla pubblicazione del dossier Mitrokhin.
Oleg Gordievsky, già colonnello dei servizi russi, dichiarò in un’intervista: «Quando ero a Mosca fra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta, Prodi era popolarissimo nel Kgb perché era più o meno sempre pro Unione Sovietica. Il Kgb non arruolava mai iscritti al partito comunista perché era proibito, ma sempre persone orientate a sinistra non comuniste, con una predilezione per i professori universitari e coloro che potevano orientare l’opinione pubblica».
A completare il tutto, la notizia riferita da un ex deputato del PD, Miguel Gotor, docente di storia contemporanea il quale in un articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” rivelò che Luciana Bozzi fu assunta, con chiamata diretta, al Ministero dell’Industria esattamente tre settimane dopo il conferimento dell’incarico a Romano Prodi; il quale non ha mai smentito la circostanza.
Una classica storia all’italiana, confezionata coi soliti ingredienti: tradimenti, favoritismi, menzogne, canagliate.
Si è sostenuto che le elezioni del 2 giugno 1946 diedero la vittoria alla Repubblica grazie a dei brogli. Che ciò sia avvenuto è assolutamente verosimile.
Ma è assolutamente certo che da allora questa repubblica si è alimentata di menzogne e di messinscene – di fantasmi, appunto, tra cui anche quelli del fascismo, del razzismo, della discriminazione sessuale e razziale, con cui si vuole coprire ogni porcheria – senza che le sue classi dirigenti abbiano mai voluto fare i conti col passato.
È proprio la mancanza di verità – e di coraggio nel volerla ricercare – che impedisce e impedirà a questo Paese fino alla fine dei suoi giorni, di trovare un assetto equilibrato, un governo onesto, una decente pacificazione politica.