“Agere sequitur esse”, ovvero l’agire segue sempre l’essere, dal momento che sussiste una correlazione necessaria tra la natura di un ente ed il suo modo di operare.
Infatti, l’uomo, in quanto creatura, non potrà fare a meno di comportarsi in senso creaturale, ossia tendere al Creatore, causa prima e fine ultimo di tutte le cose.
Qualora si negasse questa evidenza, si dovrebbe concludere che la felicità dell’uomo è una non felicità, esaurendosi in beni finiti (la ricchezza, la fama, il piacere), come tali incapaci di cogliere il principio che sta e non si lascia contraddire secondo l’insegnamento di Eschilo (525 a.C. – 456 a.C.) nell’Inno a Zeus dell’Agamennone ed esponendo l’essere umano alla “paura” del divenire.
Poiché, dunque, l’uomo ha il desiderio di infinito, che supera le leggi del tempo e dello spazio, non può che riconoscere la piena felicità in Dio.
Ne discende la logica fondazione onto-teologica dell’etica, ossia di un sistema morale che pone l’essere come norma dell’agire e fa di Dio (ipsum esse subsistens) il fine ultimo del nostro operare.