di
Gianluca DALBONI
Tommaso DOSSI
Michele CARDIN
Premessa
“Pochi giorni fa abbiamo inviato le nostre truppe in Afghanistan […] Non abbiamo imparato niente dal Vietnam?”[1] Così Anatolij Adamishin, dirigente del Ministero degli Esteri, commentava l’ingresso delle truppe russe sul suolo afghano nel gennaio 1980.
L’intervento russo in Afghanistan fu l’ultima guerra dell’Unione Sovietica prima della sua dissoluzione e, senza alcuna obiezione, possiamo affermare che fu l’ennesima piaga sul corpo dell’Orso morente, messo a dura prova dal fallimento della Perestrojka e dai decenni della dilagante corruzione dirigenziale che affliggeva una popolazione che viveva in condizioni di miseria e privazioni. Quel conflitto, visto dai generali russi come l’opportunità di far sentire di nuovo al mondo il ruggito di Mosca, fu un disastro militare e strategico che causò quasi 14.000 morti e circa 50.000 feriti, oltre a dissanguare le ormai esigue casse dello Stato[2]. Senza dimenticarsi che nel bel mezzo del fallimento del PCUS e del conflitto afghano, Chernobyl “estese le scorie” di un regime comunista in dissoluzione.
Le motivazioni del conflitto russo-afghano 1979-1989
Gli anni della “Guerra Fredda” videro gli Stati Uniti e l’U.R.S.S. contendersi l’influenza economica ed ideologica in quasi ogni continente, dall’America Latina all’Asia. In quest’ottica, in linea con la “Dottrina Breznev”[3], l’Unione Sovietica decise di sostenere il colpo di stato filo-marxista condotto da Nur M. Taraki nell’aprile del 1978 che istituì la Repubblica Democratica dell’Afghanistan[4] (DRA). L’Afghanistan, fino al 1978, fu sempre interessato da rapporti con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma la nascita della DRA vide un cambio di politica nel Paese in favore della ridistribuzione dei terreni agricoli, emancipazione femminile e instaurazione di una struttura sociale che tentò di sostituire la divisione tribale del Paese. Questo programma politico, rivoluzionario per una società semi-medievale, culminò con il tentativo di laicizzazione dello stato e della società, in un mondo dove le genti erano raggruppate in tribù, guidate dagli anziani dell’insediamento e secondo i principi rigorosi dettati dall’Islam[5].
Non è difficile immaginare lo scarso successo che il governo Taraki ottenne presso la popolazione Afghana. Si arrivò presto alla resistenza armata, la quale si aggravò a tal punto da diventare una guerra civile, nella quale i leader religiosi proclamarono la Jihad.
Dopo poco più di un anno dal colpo di stato del 1978, il primo ministro Amin[6] fece uccidere Taraki ed organizzò un nuovo colpo di stato con l’ambizioso progetto di ripristinare la pace nel Paese. Fu allora che la Russia decise di entrare in azione, organizzando un’operazione di invasione dell’Afghanistan che ebbe inizio il 24 dicembre 1979 con l’attraversamento del fiume Amu Darya da parte della 40ª Armata sovietica[7].
Armata Rossa e guerriglia Mujaheddin
Come si diceva, il conflitto fu visto dai generali russi come la possibilità di ricostituire l’egemonia del Patto di Varsavia nel mondo, dimostrando che la Russia era ancora capace di grandi campagne militari come nella Seconda guerra mondiale e così superando la crisi interna in corso. Mosca era pronta ad un conflitto su vasta scala; da anni si preparava ad un massiccio intervento contro gli Stati Uniti e la Cina, rea dal 1956 di aver deciso di seguire da sola la strada della Rivoluzione del proletariato. L’Armata Rossa arrivò a mobilitare fino ad 81.000 militari con assetti di artiglieria, elicotteri d’attacco e diverse migliaia di mezzi corazzati, con l’obiettivo di occupare le principali città afghane e la speranza che la sola loro presenza potesse scoraggiare la resistenza islamica[8].
Dal canto loro i Mujaheddin, consci di non poter affrontare i blindati russi con i soli fucili, portarono la guerra su un piano prettamente strategico: organizzarono le loro basi ed i loro rifugi nei settori montuosi del territorio, evitando così gli scontri diretti che li avrebbero visti soccombere e organizzando azioni di attacco alle linee di rifornimento russe. Utilizzando la tattica della guerriglia riuscirono ad infliggere gravi perdite in termini di uomini e materiali ai sovietici. Di gran lunga peggiori furono gli effetti psicologici derivati dagli attacchi alle colonne armate russe, di mese in mese sempre più insicure. Sfruttando la loro conoscenza del territorio i Mujaheddin costrinsero gli avversari ad addentrarsi tra le montagne afghane per stanarli, dove li attendevano invece micidiali imboscate.
I generali di Mosca provarono ad arginare la resistenza afghana utilizzando le migliori tecnologie militari disponibili, tra cui i temibili elicotteri d’attacco Mi-24 e Mi-8T [9] che rappresentarono un vero punto di svolta in favore dei russi almeno fino a quando i paesi occidentali non cominciarono a rifornire i Mujaheddin dei missili Stinger a stelle e strisce[10]. Un ulteriore tentativo russo fu l’utilizzo di soldati coscritti che prestavano servizio per un biennio, provenienti dalle regioni asiatiche del Tagikistan, dell’Uzbekistan e Turkmenistan, convinti che la presenza di militari centroasiatici potesse mitigare il risentimento verso gli invasori, mentre, al contrario, schierarono un esercito composto da militari di nazioni storicamente avversarie dell’etnia pashtun, predominante in Afghanistan.
Il ritiro
Il 26 febbraio 1986 Gorbaciov annunciava, nel suo discorso al 27° Congresso del Partito Comunista, il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan. Le operazioni si sarebbero svolte solo tre anni più tardi. A fronte della disfatta politica, militare e strategica, il rientro in Patria fu condotto magistralmente. Ciò fu permesso dall’imponente sforzo militare che Mosca mise in campo per coprire la ritirata strategica delle proprie truppe e proteggere le colonne in marcia verso il confine, impiegando fino a 100.000 uomini e centinaia di elicotteri. Il Cremlino, per la prima volta, organizzò un’imponente copertura mediatica, autorizzando la presenza nel territorio afghano di giornalisti anche dei paesi occidentali[11]. L’azione di disturbo verso tale operazione fu pressoché nulla e la ritirata sovietica fu vista come una vittoria dai Mujaheddin, che avevano raggiunto il loro obiettivo. Gli ultimi soldati dell’Armata Rossa attraversarono il “Ponte dell’Amicizia”, sul fiume Amu Darya, il 15 febbraio 1989, seguiti dal generale Gromov che lo attraversò romanticamente a piedi, accompagnato dal figlio. Si concludeva così un conflitto decennale che era stato considerato un conflitto locale, quasi di poco conto, dall’Unione Sovietica ed una guerra totale dai Mujaheddin, combattenti convinti di liberare il paese dall’invasore straniero anti-islamico.
Il governo della DRA, in quell’anno presieduto da Najibullah[12], entrò presto nel panico. Conscio di non poter tenere il controllo del paese, chiese agli alleati russi di mantenere a disposizione il supporto aereo su chiamata ed un contingente a difesa dell’aeroporto di Kabul. Verso la resistenza, invece, incapace di condurre azioni militari efficaci, cominciò un piano di riconciliazione nazionale e l’adozione di una Costituzione. Un accordo di pace fu siglato a Ginevra, il 14 gennaio 1988, tra la DRA e il Pakistan, che da anni proteggeva e finanziava i Mujaheddin.
Il ritiro russo, di conseguenza, aprì ad altri conflitti interni, che termineranno nel 1996 con la presa di Kabul da parte dei Talebani[13].
L’ultima guerra in Afghanistan (2001-2021)
Nel 2001, all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle di New York, l’Afghanistan vide una nuova invasione. Questa volta furono le truppe della NATO, le protagoniste dell’operazione denominata Enduring Freedom, che aveva l’obiettivo di cacciare il governo dei Talebani e distruggere i campi di addestramento di Al-Qaida. In un ventennio di guerra il nuovo governo afghano è sempre rimasto instabile ed il paese ha sempre avuto necessità della presenza militare degli uomini del Patto Atlantico. La presenza occidentale, però, si è rivelata decisamente diversa da quella sovietica: mentre i russi persero l’appoggio della popolazione civile, che sostenne più o meno attivamente la resistenza, a causa delle loro rappresaglie contro i villaggi inermi, gli eserciti occidentali hanno avuto un ruolo esclusivo nel sostegno alla popolazione con la costruzione di ospedali ed infrastrutture pubbliche, assistenza medica ai civili, presenza militare alle elezioni, pattugliamenti per le strade e operazioni di sminamento dei vecchi campi minati russi o degli EOD della resistenza talebana (o delle altre fazioni contro la presenza occidentale in Afghanistan).
Come per l’Unione Sovietica, però, la guerra ebbe un impatto economico considerevole per i paesi NATO[14], ma soprattutto provocò la perdita di migliaia di vite tra i militari della NATO e i civili afghani con epilogo quindi molto simile[15]. Dopo l’inizio della smilitarizzazione occidentale, cominciata nel maggio 2021 e affiancata dall’addestramento delle truppe della Repubblica dell’Afghanistan, le operazioni di rimpatrio termineranno il 30 agosto 2021 e l’esercito afghano, lasciato solo, verrà sopraffatto velocemente più a causa della corruzione e della paura che dei proiettili. Nella maggior parte dei casi i soldati afghani si arresero e si consegnarono ai talebani senza combattere. A fronte della ordinata e ben pianificata ritirata russa, la ritirata Statunitense è apparsa come una fuga precipitosa, lasciando nelle mani degli avversari molte armi ed equipaggiamenti.
L’Afghanistan, ora nuovamente guidato dai talebani, pare pronto ad una svolta più moderata rispetto ai primi anni Duemila[16], ma non bisogna farsi troppe illusioni: anche a distanza di vent’anni non dobbiamo credere che il nuovo Afghanistan sia un paese dove i diritti civili vengono rispettati e tutelati. Già dalle prime ore dopo la riconquista talebana, mentre i guerriglieri si concedevano interviste dall’altra parte di Kabul venivano giustiziati coloro che furono considerati collaboratori degli occidentali[17].
Soluzioni di continuità?
Un’analisi non troppo fuorviante degli avvenimenti richiama a cause e a conseguenze comuni tra la campagna militare russa e quella NATO. Prima di tutto è bene richiamare la natura della popolazione afghana, stretta alla nazione Pashtun e divisa tra numerose compagini tribali, storicamente un crocevia di invasori tra i quali Alessandro Magno e i satrapi di Ciro e Dario di Persia. Tali elementi di approntamento sociale e politico tesi costantemente alla gestione di un’alterità esterna hanno enormemente condizionato il concetto di esportazione e, quindi, importazione di concetti politici all’interno di un paese, come quello afghano, a forte trazione conservatrice dei propri valori storici ed identitari. Uno su tutti fu la sopravvivenza dei governi instaurati a seguito delle due invasioni e a loro capacità di sopravvivenza una volta abbandonata la “gruccia esterna”. Effettivamente le guerre tra Impero britannico e Impero Russo combattute tra 1839 e 1842 e tra 1878 e 1880 fecero conoscere l’interesse geopolitico delle potenze di allora per la zona, nonché l’influenza inglese, sancita dalla vittoria nelle due guerre citate. Spesso però si considera poco la caratteristica combattente del popolo afghano che arrivò, nonostante la sconfitta, all’Indipendenza dell’Afghanistan nel 1921 dal Regno Unito, dopo un periodo di semiprotettorato iniziato nel 1907 [18]. Questo è il tratto saliente nel raccordo della storia afghana in età moderna e contemporanea: instabilità politica accompagnata da importanti influenze estere e dalla lotta spesso confusa con i mujaheddin e con i talebani, i primi alleati – basti ricordare la pellicola Rambo III di Peter MacDonald datata 1988 – degli statunitensi e della NATO, i secondi guerriglieri vicini al fondamentalismo islamico. Il governo afghano lasciato dai russi nel 1989 rimase in carica sino al 1995; quello lasciato al termine dell’operazione Resolute Support un pugno di settimane. Questo è un dato che risponde ad un principio: l’occupazione sovietica ebbe uno scopo politico, quella NATO principalmente militare, come capitò per la dominazione britannica tra XIX e XX secolo.
Bilancio di un conflitto ancora aperto
La storia dell’Afghanistan non è dissimile da quella di molti altri paesi nel mondo, attenzionati dagli europei durante il periodo della colonizzazione. Come ci ricordano i casi di India, Algeria, Congo e molti altri, dopo un periodo di dominazione straniera, più o meno lungo, i sentimenti nazionali e di conservazione dei propri costumi prendono il sopravvento riuscendo ad unificare anche le tribù rivali da secoli per combattere l’invasore. Ciò che determina la durata di questo periodo è il machiavellico “buon governo”. Non dobbiamo pensare però che il risultato possa essere differente se si applica il modello di dominazione romana o ateniese: la Storia ci insegna come l’identità culturale possa essere tanto forte da unire un popolo intero contro un invasore.
Non è facile immaginare cosa ne sarà dell’Afghanistan tra dieci o vent’anni, ma è facile pensare che le tensioni interne, che ancora percorrono il paese, e l’interesse internazionale per un territorio potenzialmente strategico per futuri rapporti commerciali, continueranno a destabilizzare il governo attualmente al potere. Va segnalato che il ritiro delle forze NATO non ha lasciato l’Afghanistan senza opposizione ai Talebani: alcune sacche di resistenza, armate, che non hanno voluto piegarsi all’insediamento degli studenti coranici stanno ancora combattendo e non hanno intenzione di arrendersi, nonostante le amnistie promesse dai nuovi leader afghani. Anche gran parte della popolazione civile, benché spaventata dai kalashnikov dei Talebani, non guarda di buon occhio il nuovo governo, ed anzi è pensabile rimpianga la presenza militare occidentale che ha costruito infrastrutture pubbliche come strade ed ospedali, scuole aperte anche alle donne ed ha permesso libere elezioni per eleggere il governo di Ashraf Ghani[19].
Non dovrebbe meravigliarci il fatto che, un domani, un altro pezzo di storia di questo paese sofferente sia costituito da una guerra civile.
Bibliografia
Gianluca Bonci, La guerra Russo-Afghana (1979-1989), LEG Edizioni, Gorizia, 2017
Emanuele Giordana, La grande illusione. L’Afghanistan in guerra dal 1979, Rosemberg e Seller, Torino, 2019
L.W. Grau e M.A. Gress, The Soviet-Afghan War: How a Superpower Fought and Lost, Università Press of Kansas, Lawrence, 2001
G. Orfei, Le invasioni dell’Afghanistan, Fazi Editore, Roma, 2002
R. Braithwaite, Afgantsy. The Russians in Afghanistan 1979-89, Profile Books, London, 2011
[1] Cfr. R. Braithwaite, Afgantsy. The Russians in Afghanistan 1979-89, Profile Books, London, 2011.
[2] L’esatto numero dei militari sovietici caduti in Afghanistan è attualmente oggetto di dibattito: i dati ufficiali forniti dal governo moscovita parlano di 13 833 morti, 49 985 feriti e 311 dispersi. Le fonti afghane raddoppiano questi dati portando a 26 000 i caduti russi. La discrepanza, che probabilmente non sarà mai chiarita, è dovuta al tentativo sovietico di celare le reali conseguenze del conflitto, anche mediante la dolosa omissione del numero di militari deceduti in territorio russo a seguito delle ferite riportate in zona di guerra.
[3] “Dottrina della sovranità limitata” fu la politica adottata dall’URSS dal 1968 che stabiliva che la deriva di un Paese socialista verso il capitalismo era interesse non solo del Paese coinvolto, ma un problema cui porre rimedio per tutti i Paesi socialisti.
[4] La DRA durerà dal 1979 al 1987, successivamente nascerà la Repubblica dell’Afghanistan fino al 1992.
[5] E. Giordana, La grande illusione. L’Afghanistan in guerra dal 1979, Rosemberg e Seller, Torino, 2019.
[6] Hafizullah Amin resterà in carica dal 14 settembre 1979 al fino al 27 dicembre 1979, quando verrà assassinato. Verrà sostituito da Babrak Karmal.
[7] Le testimonianze del generale Gromov affermano che i preparativi dell’invasione risalgono ad un anno prima, nonostante nessuno sapesse la destinazione delle operazioni.
[8] L.W. Grau – M.A. Gress, The Soviet-Afghan War: How a Superpower Fought and Lost, Università Press of Kansas, Lawrence, 2001.
[9] Elicotteri d’attacco russi fabbricati a partire dagli anni sessanta e pesantemente armati, dotati di mitragliatrici da 12,7 mm, cannoncini da 23 mm e missili aria-superficie.
[10] I Mujaheddin cominciarono ad abbattere i velivoli russi con il solo utilizzo di RPG e mitragliatrici pesanti, ma la dotazione di questa nuova arma modificò lo squilibrio tra le forze.
[11] I giornalisti provenivano da Australia, Repubblica Federale di Germania, Finlandia, Italia, Giappone, Spagna, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti.
[12]Mohammd Najibullah sostituì Haji Mohammad Chamkani, il successore di Karmal, alla guida dell’Afghanistan nel dicembre del 1986.
[13] G. Bonci, La guerra Russo-Afghana (1979-1989), LEG Edizioni, Gorizia, 2017.
[14] Afghanistan: What has the conflict cost the US and its allies?, in BBC News, September 3th 2021.
[15] UNHCR warns Afghanistan’s conflict taking the heaviest toll on displaced women and children, in UNHCR.org, August 13th 2021.
[16] Taliban are eager for dialogue with the world, Chinese minister says, in Reuters, October 27th 2021.
[17] Taliban hunting for ‘collaborators’ in major cities, threat assessment prepared for United Nations warns, in Washington Post, August 20th 2021.
[18] G. Orfei, Le invasioni dell’Afghanistan, Fazi Editore, Roma, 2002.
[19] Afghanistan’s presidential election: Ashraf Ghani declared winner, in Aljazeera, February 18th 2020.