Il feroce assassinio di Colleferro è soltanto la punta di un iceberg; che emerge sopra una massa informe e incolore, quella di un’umanità in fase regressiva.
Non è il caso di darsi a banali e scontate considerazioni sulla decadenza morale della nostra società, sulla perdita collettiva del senso del sacro e del principio di autorità familiare, religiosa e politica che finivano per fissare, nella pratica loro applicazione, dei confini di comportamento ben precisi.
Un’interessante visuale del fenomeno della violenza ce l’ha data invece il dottor Minh Dung Louis Nghiem, un medico francese, cattolico, d’origine vietnamita, autore d’interessanti opere nel campo della medicina e della sociologia.
Nel suo “La violence des jeunes et le cerveau reptilien” egli ribalta, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, le belle tesi rousseauiane della bontà innata dell’uomo e l’influenza negativa che la società esercita su di lui.
È proprio l’esatto contrario.
L’atto di violenza, egli osserva, nasce da spinte profonde, quasi ataviche che provengono dall’“archeo cerebrum” – o cervello animale dell’uomo, chiamato anche cervello rettiliano – laddove la coscienza critica del crimine viene elaborata dal “neo cerebrum”, o la neo-corteccia.
“Il cervello rettiliano – afferma l’autore – può essere addomesticato… e in questa maniera l’uomo inventò la civilizzazione. Ma la storia dimostra che la civilizzazione può corrompersi, farsi mostruosa e morire”.
L’uomo è in fase regressiva; non è solo la moltiplicazione di queste esplosioni di violenza gratuita a dimostrarlo; il suo progressivo essere ostaggio delle pulsioni sessuali, l’esibizione fine a se stessa del corpo e della nudità, la degenerazione della musica, divenuta ritmo sincopato, dell’arte, divenuta capriccio individuale e astratto, del linguaggio, sempre più povero; un accesso oramai collettivo alla droga che abbatte ogni filtro di razionalità.
Non c’entra nulla la “morale”, evidentemente, ma solo la capacità dell’uomo di dominare le proprie passioni e di tendere al bello e al giusto.
Anche a questo serviva infatti l’Arte. E pure il Diritto.
La prima, come osservava Ardengo Soffici deve possedere “la capacità e il dovere di esercitare una funzione formativa, educativa, eticamente profittevole all’ordine, allo sviluppo ideale della collettività sociale e civile”. Il secondo, affermava Celso è – era – “ars boni et æqui”. Una coincidenza formidabile, che trova un riscontro altrettanto formidabile nelle loro rispettive negazioni.
L’arte che si disinteressa dei profondi valori dell’uomo per affidarsi alla fantasia, all’arbitrio, alla sensazione momentanea e all’istinto non fa forse pendant col diritto oggi in vigore, fondato su criteri sentimentali, sull’interpretazione sentimentale, che costruisce regole generali fondate su capricci di minoranze? Una degenerazione romantica, nell’un caso come nell’altro.
La civilizzazione può – come osservava appunto il dottor Louis Nghiem – corrompersi, farsi mostruosa e morire.
E l’uomo, non più capace di dominarsi, poiché si sta sgretolando ciò che glielo consentiva, finisce per diventare preda del suo latente demone primitivo.