Prendiamo ad esempio quel malefico, microscopico esserino che ci sta rovinando le giornate. Il volgo lo ha chiamato, fin dall’inizio, “coronavirus”, con la variante pronunciata vezzosamente “coronavairus” da alcuni semicolti, inglesismo che sta esteticamente alla lingua italiana come l’unghia del mignolo lasciata crescere, come usava qualche generazione fa, sta all’eleganza maschile. Poi sono arrivati i Signori Scienziati che ci hanno pazientemente spiegato che no, il termine coronavirus non va bene, perché troppo generico: questo termine indica un’ampia famiglia di virus respiratori che possono causare malattie diverse, compreso il banalissimo raffreddore. È allora doveroso utilizzare il termine Covid-19, nome che significa esattamente la stessa cosa essendo acronimo di Co (corona), Vi (virus), D (“disease”, malattia) e 19, l’anno di identificazione, ma poiché inventato dall’“autorevole” OMS, è più “scientifico”.
Si tratta di un nome politically correct. Infatti, la denominazione ufficiale rispetta precise linee guida, un “galateo della scienza”, elaborato dall’OMS in nome della solita Correttezza Politica, per evitare che i nomi delle epidemie richiamassero alcune comunità etniche. Non possiamo più denominare un pandemia “asiatica”, “cinese” o “spagnola” (un falso storico: chiamata così perché non essendo la Spagna nel 1918 in guerra e non essendoci quindi censura militare, la stampa iberica fu la prima a parlarne. In realtà sembra che sia stata portata in Europa da soldati americani e diversi epidemiologi hanno ipotizzato che il virus della spagnola si sia diffuso originando dalla provincia cinese del Kwangtung). Chiamare il Covid-19 “cinese” sarebbe “razzismo” e i pipistrelli dell’Impero di Mezzo, che sembra siano la causa originaria del virus, potrebbero offendersi.
Però Trump, che pare essere indecorosamente insensibile alla political correctness, la chiama “cinese” con chiaro intento accusatorio, anche perché diversi complottisti statunitensi ritengono che questo virus sia sfuggito da un segretissimo laboratorio militare cinese, mentre complottisti di segno opposto concordano sì sulla fuoriuscita da un laboratorio militare segreto, ma americano.
Ciò che questi tristi eventi ci significano, tra l’altro, è l’importanza assoluta delle parole. Le parole non sono semplici insiemi di fonemi, ma molto di più. Non solo le parole ci permettono di comunicare, ma danno significato e senso alla comunicazione. E, ancor di più, ci forniscono un segno di valore, o di disvalore, dei concetti comunicati. Noi pensiamo con le parole e nel nostro pensare assumiamo anche l’implicito contenuto, di significato e valoriale, delle parole stesse.
La lezione di Orwell nel suo 1984 è ben nota: la Neo-lingua dal cui nuovo vocabolario sono escluse le parole e i pensieri non in linea con le direttive del Partito e del Ministero della Verità, e quindi rappresentano uno “psicoreato”. Ci conviene leggerlo, o rileggerlo, 1984: è una fedele descrizione di quello che ci sta succedendo. Michel Onfray, intellettuale francese controcorrente, ha recentemente pubblicato Teoria della dittatura. Perché non viviamo più in una società libera, edito in Italia da Ponte alle Grazie, che ci accompagna in una rilettura di 1984 e La Fattoria degli animali, svelandone la terribile attualità riguardo alla feroce censura liberal che oggi ci opprime.
La parola è anche segno magico: in magia, così come in politica, le parole cambiano la realtà, cambiano il mondo. Dare il nome alle cose, ai luoghi, agli animali significa dichiarare, affermare il proprio possesso, il proprio diritto ordinatore, di più, la propria signoria su di essi. Carl Schmitt, con lucida chiarezza, ci ricorda che: “Una conquista territoriale ha un effetto costitutivo solo quando chi attua la presa di possesso riesce a imporre un nome.” Non è banale ricordare che non è per nulla ininfluente chiamare un certo arcipelago Falkland Islands o Islas Malvinas (in buon italiano, Isole Maluine). In un’antica leggenda della Val d’Ossola, si trova un brano illuminante: “Dopo aver creato tutte le cose, il Buon Dio cominciò a dare loro dei nomi e disse loro: siete vive perché avete un nome. Il vostro nome è la vostra anima. Non fatevi togliere il nome perché sareste morte. Non fatevi cambiare il nome perché sareste schiave di chi ve lo ha cambiato”.
Ecco perché la Rivoluzione liberal-mondialista, i Signori del Caos, gli Apologeti della Perversione sono così impegnati a inventare nuove parole portatrici di un significato implicito, spesso non percepito come giudizio di valore. Oppure a modificare il senso di parole che originariamente ne avevano un altro, magari più neutro o semplicemente descrittivo. O ancora a proibire, pena conseguenze anche penali o comunque di stigmatizzazione e di discriminazione sociale (è uno psicoreato), l’uso di termini che potrebbero veicolare concetti non graditi al regime.
Consideriamo termini come “femminicidio”, “maschilismo”, “sessismo”, “specismo”, “omofobia”, “xenofobia”, “islamofobia”, oppure “gay”, “LGTB”, “queer”, “gender” o ancora l’ingannevole, anche se non recente, “migrante” (in realtà, invasori clandestini): solo qualche decennio fa non esistevano, sono neologismi creati dal potere per meglio veicolare un sottinteso di vergognosa condanna o di esaltata apologia. “Femminicidio”, ad esempio, obbrobrio lessicale, grammaticale e sociologico-penale, ha lo scopo precipuo di demonizzare il grande nemico dei tempi moderni, il Grande Satana del Politicamente Corretto: l’Uomo Bianco, Europeo, Eterosessuale, Cristiano.
Esaltato da Kipling per il suo fardello, è oggi invece considerato colpevole di ogni delitto: dalle carestie nel terzo mondo, alla deforestazione in Amazzonia, alla distruzione della natura e alla conseguente generazione dei virus, alla persecuzione delle minoranze (neri e omosessuali innanzitutto). E ovviamente, allo sterminio sistematico delle donne. Quante volte l’abbiamo sentito nei telegiornali: “ennesimo femminicidio…”. Femminicidi ovviamente dovuti all’imperante ideologia “maschilista”, orribile perversione intrinseca all’uomo bianco eterosessuale. Scrive Roberto Pecchioli: “Nel contesto di una società femminilizzata, solo l’accusa terribile di “maschilismo” può atterrire quanto quella di razzismo”.
Oppure, consideriamo il termine “gay”, creato con il precipuo scopo di far simpatizzare, o antipatizzare di meno, l’opinione pubblica con l’omosessualità, coniando un’auto-definizione gradevole sin dal suo suono. Il termine “gay”, infatti, significa non solo omosessuale ma anche “allegro”, “gaio, “glamour”, “stravagante”, “spensierato”. Più che una deviazione sessuale, una categoria dello spirito.
“Islamofobia”: gli Europei di mezzo continente, dalle coste mediterranee ai Balcani, dalla Grecia all’Europa centrale, dalla Spagna alla Russia, che per centinaia di anni hanno subito le minacce, gli attacchi, le aggressioni, i massacri, le distruzioni, i rapimenti, le oppressioni, le persecuzioni religiose da parte dei musulmani, si stupirebbero e si indignerebbero per questo significato “negativizzante” della “paura dell’Islam”, da considerarsi sbagliata, ingiusta, eurocentrica, perché l’Islam è “una religione di pace”.
Loro, i nostri antenati, fino a poche generazioni fa (ancora nel 1821 l’Elba venne assalita e depredata dai pirati barbareschi e molti isolani fatti schiavi) sapevano bene che dell’Islam dobbiamo aver paura. Noi, invece, nonostante guerre in Medio Oriente, massacri di cristiani, attentati e arroganti invasioni, ce ne siamo dimenticati o lo vogliamo ignorare.
Sulla voluta, aggressiva distorsione di termini quali “fascismo” e “razzismo”, sul loro falsificato e falsificante uso storico-politico, aggressivamente manipolatorio, strumentale alla demonizzazione degli avversari (il 25 Aprile è ormai la giornata equivalente ai “due minuti di odio” del 1984 di Orwell), non c’è bisogno di soffermarsi.
Vi è poi il fenomeno della “lingua tagliata”, delle parole proibite. L’uso di parole come “negro”, “clandestino”, “zingaro” è, in molti casi, passibile di essere perseguito penalmente. E, ove non bastasse la liberticida legge Mancino, ci sono le disposizioni dell’Agcom e quella della Carta di Roma voluta dall’Ordine e dal sindacato dei giornalisti, che indicano imperiosamente quali termini usare e quali non usare perché “offensivi”. L’ONU e l’Unione Europea hanno da tempo emanato diktat linguistici che impongono un linguaggio ispirato alla distorsione della realtà della politically correctness: occorre quindi sostituire policeman con police officer, salesman con salesperson, wife/husband con spouse e via corrompendo.
D’altronde, ben più vicino a noi, l’imposizione progressista, omosessualista e genderista di sostituire madre e padre con genitore uno e due ha già purtroppo preso piede nelle nostre istituzioni.
D’altronde, la proibizione di parole sgradite ai potentati della sovversione, in nome del loro odio per la verità e la realtà, non è solo fenomeno di oggi. Quando nel 1797 Napoleone e la sua soldataglia rivoluzionaria aggredirono e invasero la millenaria Repubblica di San Marco, massacrando, saccheggiando, derubando, espropriando palazzi e ville, spogliandola delle innumerevoli, preziosissime opere d’arte, privandola di ogni libertà con la complicità dei giacobini italiani, gli occupanti d’oltralpe proibirono, in odio all’aristocrazia veneta, di chiamare “servitori” i servitori delle case patrizie e di sostituire questo termine con “domestici”. Ignoriamo se abbiano anche imposto di modificare il titolo della famosa commedia di Goldoni, obbligando i teatri a rappresentarla con il titolo: “Arlecchino domestico di due padroni”.
Infine, troviamo la categoria delle parole e delle espressioni “dolcificanti”, create per non offendere le delicate orecchie e le indurite coscienze dei moderni di fronte alla cruda realtà della morte procurata: così l’aborto diventa “interruzione volontaria di gravidanza”, l’embrione “un prodotto del concepimento” e l’eutanasia “dolce morte”.
Come siamo arrivati, passo dopo passo, a tutto questo? Certamente, c’entra il principio della “rana bollita” di Chomsky: una rana buttata in acqua bollente schizza subito fuori, ma cotta lentamente in acqua inizialmente fredda si lascia quietamente bollire. È il nostro caso. Solo qualche lustro fa, ci saremmo indignati per la distorsione linguistica che subiamo oggi. Ma la causa principale è stata la sistematica, organizzata, strategica conquista, da parte della sinistra, prima marxista poi liberal, di tutte le agenzie “datrici di senso”: scuola, università, case editrici, premi letterari, stampa, televisioni, persino lo star system: con tale totalitaria potenza di fuoco, le è stato facile imporre parole, significati, divieti.
Così, lentamente ma inesorabilmente, le parole hanno subdolamente insinuato nel “sentire comune” dell’opinione pubblica anche un significato di valore: in molti casi, l’implicita positività del significante e del significato (ad esempio, “gay”, “gender”) viene imposta dalla pressione sociale e culturale e con la minaccia di stigmatizzazione dei dissenzienti. Il tutto, gestito con le regole feroci della Correttezza Politica, che Ida Magli definì: “la forma più radicale di lavaggio del cervello che i governanti abbiano imposto ai propri sudditi” che, nel caso delle parole, è definibile: “l’obbligo di acquisire, attraverso norme linguistiche, un sistema non corrispondente alla realtà.” Definizione, quest’ultima, particolarmente veritiera in termini di negazione della realtà naturale, soprattutto, ma non solo, se correlata ai temi dell’omosessualità e del gender.
D’altronde è proprio questo l’obiettivo dei Signori del Caos: pervertire, distorcere o negare la realtà. Particolarmente esplicativo questo pezzo di un articolo di Daniela Mattalia: “Funziona così: si prende una mela e la si chiama – per decreto o per decisione di qualche politico in stile Laura Boldrini – pera. Poi si redarguisce (o si querela o si esclude dal dibattito) chiunque si ostini a dire: “Ehi, guardate che quella è una mela!”. Col passare del tempo, il linguaggio si modifica: si cominciano a chiamare pere quelle che sono a tutti gli effetti mele. Modificando il linguaggio si modifica la realtà.” A proposito di mele, di parole e di realtà: pare che San Tommaso aprisse la prima lezione di ogni anno di studi all’Università di Parigi mettendo una mela sul leggio e dicendo: “Questa è una mela. Chi non è d’accordo se ne può andare”. Aneddoto improbabile (ma coerente con la sua filosofia realista) data la naturale mitezza del Dottore Angelico, ma significativo dell’importanza di difendere la realtà e la corrispondenza veritativa delle parole con le cose.
Il variegato, talvolta confuso fronte degli avversari delle sinistre e delle élite mondialiste – definiamolo pure “le destre” – ha reagito debolmente, anche se non sono mancati autori coraggiosi e organi di stampa reattivi, finendo spesso per utilizzare le parole, le categorie, i concetti e quindi assumendo implicitamente i valori dell’avversario. Insufficienza di mezzi di comunicazione e di strumenti mediatici con cui reagire? Timori di condanna sociale, considerato anche lo strapotere mediatico degli apologeti della correttezza politica? Insufficiente consapevolezza del diabolico meccanismo di corruzione della realtà? Una non sempre adeguata strumentazione intellettuale di analisi e di comprensione? Probabilmente, un mix di queste cose.
Rimane il fatto che, accettando il divieto di parole proibite e usando acriticamente parole-trappola come “gay”, “migranti”, “femminicidio”, “maschilismo” e via aberrando, poiché “chi non ha le parole non ha le cose”, ci siamo fatti strappare la possibilità di pensare la realtà e il mondo, di descriverlo e di rappresentarlo. Ci siamo dimenticati del severo monito di Nicolás Gómez Dávila: “Chi accetta il lessico del nemico si arrende senza saperlo” e ci siamo fatti a nostra volta diffusori del virus del Bispensiero narrato nel 1984 di Orwell, untori con l’unguento malefico della Correttezza Politica. Sapremo rimediare?
Antonio De Filip
(Articolo pubblicato in data 05/09/2020 dal sito Ricognizioni)