Il Global Terrorism Index dell’Institute of Economics and Peace, è un rapporto che valuta quale sia stato l’impatto del terrorismo (non meglio specificato) sulla popolazione mondiale, analizzando numero di azioni, vittime e danni materiali in 163 Paesi.
Nel 2019 sono 63 gli Stati in cui si è verificato almeno un attentato e a poco serve sapere che la contabilità ci dice che il numero dei morti è sceso rispetto al 2018, al 2017, al 2016 e al 2015 perché i morti ammontano comunque a quasi 14.000 (anche se la gran parte di essi sono stati uccisi in zone in cui già insiste una situazione di conflittualità). In generale, in quel rapporto si rileva che le vittime sono diminuite in 103 Stati e aumentate in 35.
La riduzione maggiore si è verificata in Afghanistan e in Nigeria, che tuttavia rimangono gli unici due paesi con più di mille morti imputabili al terrorismo (che solo a questo punto dell’analisi si scopre essere islamista).
Per completezza di informazione, il rapporto evidenzia che gli Stati in cui si è avuto un sensibile incremento degli attacchi, sono il Burkina Faso (dove l’incremento è stato del 590%), lo Sri Lanka, il Mozambico, il Mali e il Niger.
Si tratta di un’analisi che vuole ridurre a stechiometria un fenomeno, quello del jihadismo, che non serve a nulla analizzare con i numeri.
Quello che tale rapporto evita di specificare è che la maggior parte dei gruppi terroristi che agiscono hanno una connotazione ben precisa: sono formati da moujahid (aspiranti al martirio islamista), ossia jihadisti i quali hanno effettuato un percorso formativo ben preciso nell’ambito dell’islam integralista che prevede la Predicazione, che avviene in famiglia e/o in moschea, mirata alla radicalizzazione la quale porta alla militanza attiva e quindi al jihadismo.
In tale rapporto si parla di:
- Talebani, identificati come i più pericolosi (tuttavia, ho i miei dubbi, soprattutto per il fatto che si tratta di un movimento jihadista che, ancorché numeroso, non manifesta intenzione di espandere il jihad oltre la regione compresa tra Afghanistan, Pakistan e aree limitrofe);
- ISIS, che ha sbaraccato dallo Sham e ha preso posizione nel Sahel-Sahara, ove ormai si è consolidato (rivendicando la bellezza di 27 attacchi in altrettanti paesi);
- Boko Haram, gruppo nigeriano che nel 2015 si è affiliato all’ISIS (il quale ha soppiantato AQMI o Al Qaida nel Maghreb Islamico, ormai diventato un gruppo jihadista algerino come il GSPC e altri minori);
- Al Shabaab somalo, situato all’estremo opposto della fascia sahelo-sahariana, che si è esteso fino al Mozambico ove, in questo momento, sta imperversando nella regione nord di quel paese, non tralasciando di rendere instabili e insicuri il Kenya e lo Zambia.
Quel rapporto, pur parlando di jihadisti, dà l’impressione di considerarli alla stregua delle BR, della RAF, di Sendero Luminoso, etc… quando, invece, si tratta di terrorismo islamista, il quale risponde a caratteristiche ben precise che lo distinguono dai gruppi terroristi d’antan:
- risponde ad una spinta religiosa degenerata in una ideologia;
- è un terrorismo globale che persegue il Lebensraum dell’Islam;
- gli adepti sono prima di tutto aspiranti martiri (chahid) e non sono quindi disponibili a dichiararsi «prigionieri politici». Adepti che, nelle loro azioni, sono orientati ad andare incontro alle estreme conseguenze, fino alla mattanza di quelli che loro considerano “empi” (kafir) o al suicidio;
- possono contare su ampie retrovie che ne giustificano l’operato, quando non lo sostengano logisticamente e operativamente (fattore che, per esempio, è venuto a mancare alle BR e alla RAF).
Secondo il rapporto, la regione più colpita dall’ISIS e dai gruppi jihadisti ad esso affiliati (dei quali ancora adesso non esiste una recensione attendibile) è l’Africa sub-sahariana, una sorta di autostrada che si estende dalla Libia alla Mauritania, dove ormai da anni i gruppi jihadisti legati all’ISIS, oltre a far proseliti e a contendersi il primato di letalità delle loro azioni, si contendono altresì territorio e rotte del contrabbando di armi, carburante e droga.
La stessa cosa fa il Boko Haram in territorio nigeriano e Al Shabaab nell’area sud Somalia/nord Kenya e nel nord del Mozambico.
In tale rapporto – chissà perché? – non viene opportunamente evidenziato che l’internazionale islamista, rappresentata politicamente dalla Fratellanza musulmana e militarmente da ISIS (e gruppi ad esso affiliati), sta tentando di realizzare una sorta di Stato Islamico nel Sahel-Sahara in seno al quale saranno confederate tutte le realtà che compongono tale regione (tribù, clan, famiglie allargate, gruppi del contrabbando e di rapina, etc…).
E meno ancora viene evidenziato che esiste un piano che riguarda l’Europa, dove dal 1995 il jihad colpisce con attentati condotti con uso di ordigni esplosivi, sparatorie e investimenti di folla con autobus e camion, e dove dal 2020 ha iniziato anche a sgozzare.
Francamente non si capisce quale sia il meccanismo per cui non si definisce con chiarezza che il nuovo terrorismo è un terrorismo jihadista, attribuibile a una religione ben identificata che è deteriorata in ideologia, e che tale terrorismo ha per obiettivo anche l’Europa, ove sono incistate numerose comunità che professano un Islam “non tollerante” (per usare un eufemismo) e che manifestano una palese militanza in contrasto con le leggi in vigore. Comunità che non riescono (non vogliono?) a condannare senza riserva gli attentati compiuti in Europa.
Fino a quando non saremo in grado di affermare esplicitamente che:
- il terrorismo attuale è islamista;
- una parte non trascurabile del mondo musulmano lo giustifica o lo appoggia;
a nulla serviranno i rapporti consuntivi sulle attività terroristiche.